Alla fine di ogni percorso, sia esso esistenziale o circoscritto all’ambito lavorativo, ciascuno di noi è costretto a reinventarsi per andare avanti. Dopo essere arrivati ad un traguardo importante, però, è ancora più difficile rimettersi in gioco. Trovare stimoli e convivere con l’ansia da prestazione rispetto a quanto fatto in precedenza non è per niente facile. Immaginatevi, solo per fare un esempio, come si devono essere sentiti i fratelli Anthony e Joe Russo dopo il successo planetario di Avengers: Infinity War e Avengers: Endgame; da una parte entusiasti per il risultato ottenuto, dall’altra consapevoli di dover abbandonare dopo anni la comfort zone del Marvel Cinematic Universe per ritornare con i piedi per terra, potendosi sì dedicare a progetti più personali, ma al contempo più rischiosi sia a livello artistico che commerciale (della serie: finché c’è stato il brand Marvel a coprire le spalle erano tutte rose e fiori, ma adesso?). Ad aprire le danze è stato dapprima Joe, autore della sceneggiatura del deludente action Tyler Rake (con protagonista l’Avengers Chris “Thor” Hemsworth). Ora, invece, i due fratelli si sono rimessi in società per dirigere il loro primo film post Thanos: Cherry – Innocenza perduta, disponibile da qualche giorno su Apple Tv+.
Ricostruire la propria carriera dopo i fasti del MCU: sembra essere questo l’obiettivo dei fratelli Russo. Un intento non semplice per due registi che si solo legati indissolubilmente al progetto Marvel. Dopo tutto, prima del 2014 i nomi Anthony e Joe Russo erano pressoché sconosciuti alla maggior parte dei cinefili. Tre film dal ’97 al 2006, nessuno dei quali memorabile: Pieces, il loro esordio dietro la macchina da presa; Welcome to Collinwood, remake de I soliti ignoti di Mario Monicelli; ed infine Tu, io e Dupree. Come abbiano fatto ad entrare a far parte del MCU rimane un mistero: colpo di fortuna, oppure bravura del loro agente? Fatto sta che la svolta per i due fratelli arriva quando vengono chiamati a dirigere Captain America: The Winter Soldier. Convincono la produzione a tal punto – forse grazie alla loro servizievole efficienza -, da essere scelti come registi non solo del successivo Captain America: Civil War anche del dittico conclusivo della terza fase del MCU. Tutto bello, ma ora che è scoccata la Mezzanotte e la favola è finita?
È tempo di rimboccarsi le maniche e dimostrare che, al di là della Marvel, si ha qualcosa da dire e che lo si sa dire con un’efficacia registica che non è seconda a nessuno. Forse si tratta di una percezione soggettiva, ma durante la visione del loro nuovo film, Cherry – Innocenza perduta, si ha la sensazione di non essere solo di fronte alla storia di un giovane problematico, ma anche a un grido di autoaffermazione: «Noi esistiamo, al di là del MCU!». E, da questo punto di vista, acquista senso la foga nevrastenica che contraddistingue l’opera: delirante, sempre sopra le righe, talmente densa di accadimenti da risultare pasticciata (specie nella seconda parte), e soprattutto continuamente preoccupata di dimostrare allo spettatore la propria vitalità intellettiva ed artistica.
Cherry (Tom Holland) è all’apparenza un ragazzo come tanti altri. Un po’ timido, un po’ disagiato, forse anche un po’ nerd. Le sue giornate si dividono tra l’università – che segue con una certa svogliatezza – e gli amici di una vita, nei sobborghi periferici di Cleveland. Quando incontra la coetanea Emily (Ciara Bravo), la sua vita prende una significativa svolta: Cherry si innamora e sogna un roseo futuro con la fidanzata. Ma la vita avrà in serbo per lui solo amarezze. Viene lasciato da Emily e, per disperazione, si arruola nei Marines. Lei nel frattempo ritorna sui suoi passi, i due decidono di sposarsi, ma ormai il danno è fatto. Cherry è costretto, così, a partire per il fronte: l’Iraq della Seconda Guerra del Golfo. Un’esperienza che lo segna a tal punto da condizionargli l’esistenza una volta tornato a casa: inizia a drogarsi, trascina anche la compagna del baratro della dipendenza da aminoacidi, ed infine si mette a rapinare banche per pagare i propri debiti. Ma la sua corsa autodistruttiva, anche per sua fortuna, non durerà a lungo.
Per certi versi, Cherry – Innocenza perduta sembra essere il film di due esordienti più che di due registi navigati e con una carriera più che ventennale alle spalle (un’osservazione tutt’altro che negativa). Ma, tenendo conto di quanto abbiamo detto in precedenza, non c’è da stupirsi più tanto. Il film, tratto dal romanzo (in parte autobiografico) di Nico Walker e sceneggiato da Angela Russo-Otstot e Jessica Goldberg, ripercorre la vita del protagonista dalla giovinezza fino all’età adulta, coprendo un arco temporale di vent’anni, dal 2002 fino alla contemporaneità. Non è solo un drammatico, complicato e doloroso coming of age; la parabola di Cherry assume, durante il corso della narrazione, le fattezze di una vera e propria discesa agli inferi. Prima la droga, di cui rimane vittima fin da giovanissimo e che continuerà a contraddistinguere (in negativo) tutta la sua vita; poi, l’esperienza bellica e il conseguente sopraggiungere dello stress post traumatico; un matrimonio che cade a pezzi, emblema di una vita dispersa in una miriade di errori (alcuni, forse, imputabili anche al destino); ed infine, la trasformazione da reduce problematico a tossico rapinatore.
Il nuovo film dei fratelli Russo ne contiene al suo interno almeno altri tre. Strutturato in macro-capitoli (più un prologo e un epilogo ambientati nel presente), Cherry – Innocenza perduta è un film ambizioso che se da una parte tradisce una certa superficialità (l’atto d’accusa nei confronti delle droghe e delle guerra in Medio Oriente), dall’altra è il ritratto nudo e crudo di una generazione di americani divenuti adulti in prossimità del nuovo millennio e scontratisi contro una società respingente, poco inclusiva ma altamente distruttiva. Un ritratto che i fratelli Russo “dipingono” utilizzando, nel complesso, uno stile allucinato che adotta soluzioni ai limiti dell’assurdo (la “soggettiva anale” entra di diritto tra le inquadrature s-cult della storia del cinema), che muta però di macro-capitolo in macro-capitolo: a volte, bisogna essere onesti, senza una reale motivazione (perché utilizzare il formato 1,66:1 per descrivere l’addestramento militare quando poi le scene ambientate in Iraq sono filmate in uno spettacolare e accattivante 2,39:1?).
Incongruenze di un’opera schizofrenica che spesso è fagocitata dalla sua stessa schizofrenia. Ma che comunque cattura e incuriosisce proprio per la sua volontà di essere fuori dagli schermi, costantemente eccessiva. I due registi non hanno paura di abusare di svariati cliché filmico-narrativi – il protagonista che rompe la quarta parete e si rivolge direttamente agli spettatori -, né di recepire le suggestioni provenienti da altri film (da Trainspotting di Danny Boyle alla lunga sfilza di film dedicati alla guerra in Iraq, a cominciare da The Hurt Locker di Kathryn Bigelow). Nel complesso, però, Cherry – Innocenza perduta trasuda originalità; a ben vedere non sempre supportata a livello drammaturgico. Troppo sbilanciato, il film dopo un’inizio promettente rimane vittima di una seconda parte meno coinvolgente, cedendo alla pedanteria.
A salvarlo dalla disfatta, oltre naturalmente a uno stile comunque efficace – al di là del fatto che piaccia o meno -, è però soprattutto la performance di Tom Holland. L’attore, che già aveva messo in mostra il suo potenziale in Le strade del male, conferma le sue qualità riuscendo a neutralizzare quello che per lui è un vero e proprio “handicap”: la sua faccetta da eterno adolescente, nonostante i venticinque anni di età (un problema se devi essere credibile ad interpretare un personaggio quasi fino ai 40 anni). La sua recitazione si adatta ai diversi registri adottati durante il corso della narrazione, trovandosi a suo agio con il registro drammatico, quello comico-grottesco e persino con quello surreale, dando sempre l’impressione di mantenere una misura encomiabile (da questo punto di vista, notevole è stato anche il lavoro sull’attore da parte dei due registi). In attesa di rivederlo nei panni di Peter Parker in Spider-Man: No Way Home, possiamo dire con certezza che il “bimbo ragno” ne ha fatta di strana. Chi l’avrebbe mai detto? Chapeau.
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