Ci sono film che, per loro stessa natura, dividono. Opere la cui singolarità rifugge ogni possibile giudizio generalizzato (sia esso positivo o negativo). Sir Gawain e il Cavaliere Verde di David Lowery appartiene a questa categoria. Dopo tutto, è impossibile anche solo pensare che un film ispirato a un poema inglese del tardo XIV secolo possa mettere d’accordo tutti. Eppure il film Lowery arriva in Italia – è disponibile su Amazon dal 16 novembre – sospinto dai giudizi estremamente positivi della critica britannica e d’oltreoceano, che ne hanno apprezzato le ambizioni, la ricercatezza formale, e soprattutto la volontà di non piacere a tutti i costi al pubblico mainstream.
Naturale, date le premesse, avvicinarsi al film con curiosità e aspettative. Senza contare che il regista, David Lowery, fino ad oggi rientrava (non ce ne voglia a male) nella categoria manzoniana dei “Carneade”: suoi sono il disneyano Il drago invisibile e il triller Old Man and the Gun. Un regista quindi fino ad oggi non propriamente dedito al cinema d’autore, ma che si è imbarcato (anche in qualità di sceneggiatore) in un’impresa tanto ardua quanto affascinate: trasporre al cinema un racconto spurio del ciclo arturiano non cercando di modernizzarne trama e contenuti, ma attenendosi al testo di partenza (soprattutto nello spirito) per realizzare un’opera esperienziale che certamente avrebbe meritato di essere proiettata sul grande schermo (la dislocazione in streaming è stata causata dal Codiv-19).
Il giovane Gawain (Dev Patel), nipote di Re Artù (Sean Harris), non è ancora riuscito a far emergere il proprio valore. La sua vita, a dire il vero, è piuttosto dissoluta: ama dormire in un bordello e ha come fidanzata una prostituta (Alicia Vikander). La sua occasione giunge inaspettata durante il festeggiamenti del Natale, presso il palazzo reale. Un misterioso cavaliere completamente verde (Ralph Ineson) giunge a corte, proponendo un gioco: uno dei cavalieri potrà colpirlo, a patto di ricevere il medesimo colpo a distanza di un anno esatto, presso la sua magione: la Cappella Verde. Gawain si fa avanti con spavalderia, decapitando il cavaliere verde. Quest’ultimo, però, si rialza come se nulla fosse, recupera la propria testa e si allontana da Camelot, non prima di aver ricordato a Gawain del loro appuntamento l’anno successivo.
È proprio al suddetto viaggio che è dedicato l’intero racconto: seppur titubante a partire (dopo tutto, il finale sembra già scritto), Gawain parte alla volta della Cappella Verde per “pagare il suo debito”. Lungo la strada lo attendono però una serie di insidie: l’incontro con dei banditi adolescenti, quello con una misteriosa giovane in cerca della propria testa (Erin Kellyman), ed infine il soggiorno presso la dimora di un Lord (Joel Edgerton) propenso ad aiutarlo, ma della cui moglie (ancora Vikander) Gawain subirà il fascino.
Un viaggio, quello del protagonista, che non è però solo fisico, spaziale e temporale, ma anche interiore. Il percorso lungo il quale si incammina Gawain, comprensivo di ostacoli da superare, di alleati e antagonisti, è una variante del classico “viaggio dell’eroe” teorizzato da Joseph Campbell in L’eroe dai mille volti e poi ripreso e riadattato per gli addetti ai lavori del cinema da Christopher Vogler nel libro Il viaggio dell’eroe. Cavaliere in fieri, più che andare incontro al proprio destino, Gawain sembra determinarlo attraverso le proprie scelte, le proprie azioni, le proprie esperienze.
Per questo motivo, il film di Lowery sceglie un’estetica rarefatta, quasi immateriale, che se da un lato è imposta dall’esiguo budget (15 milioni di dollari), dall’altro risulta efficace proprio per delineare un mondo situato al confine tra realtà e fantasia, abitato da un’umanità in presa ai più viscerali impulsi (ad esempio, quelli carnali), ma al contempo popolata da strane creature: morti viventi, animali parlanti, giganti… senza dimenticare il cavaliere verde. Risiede proprio in questo ricercato contrasto di alto e triviale, di materiale e di ideale, il fascino che Sir Gawain e il Cavaliere Verde emana.
Per esserne catturati è necessario compiere un “atto di fede” nei confronti dell’opera e del suo autore. Come è stato giustamente scritto da più parti, quello di Lowery non è un film per tutti; abbisogna di uno spettatore che accetti di condividere con Gawain il viaggio, che non si tiri indietro di fronte ai momenti maggiormente contemplativi, che non pretenda di capire tutto quanto, ma che si lasci andare al piacere della visione. Solo in questo modo sarà possibile dialogare con il film e, sotto un certo punto di vista, rendergli giustizia.
Perché Sir Gawain e il Cavaliere Verde sceglie volutamente la strada più ardua da affrontare. Racconta la genesi di un eroe senza ricorrere ad alcuna spettacolarizzazione, partendo dal presupposto che per essere eroe non è necessario solo saper maneggiare una spada (cosa che, oltretutto, Gawain sa fare fino ad un certo punto), ma avere anche imprescindibili qualità etiche e morali (le stesse che il protagonista dovrà dimostrare presentandosi all’appuntamento con il cavaliere verde). Si affida a un simbolismo sfacciato che sovente rifugge alla comprensione, ma che allo stesso tempo alimenta il fascino di un’opera imprevedibile e spiazzante.
Una ricerca di autorialità, quella di Lowery, che a volte però deve fare i conti con un significativo sconfinamento nella maniera. Più che a livello visivo, lo si riscontra soprattutto a livello narrativo. Non tutti i capitoli nei quali è suddiviso Sir Gawain e il Cavaliere Verde hanno la stessa forza evocativa. A volte si ha la sensazione che il film si perda, specie nella parte centrale, forse compiacendosi eccessivamente del suo (innegabile) fascino, come ad esempio nella sequenza dell’incontro tra Gawain e i giganti. Ma si fa perdonare qualche (lieve) scivolone con un prefinale di struggente bellezza: un salto in avanti nel tempo raccontato con una “furia” estetica così efficace da far accapponare la pelle. Un vertiginoso what if? che travolge ed entusiasma fino alle lacrime, e che ci riconsegna l’anima più pura di un film maestoso, complesso, sfaccettato, a tratti forse eccessivamente esile, ma comunque straordinario.