Con l’inizio del nuovo millennio, il quotidiano “The Times” stilò una classifica delle 100 migliori opere letterarie in lingua inglese del secolo precedente. I prescelti furono tutti romanzi, tranne uno: Watchmen, graphic novel scritta da sua maestà Alan Moore e disegnata da Dave Gibbons. Un’opera monumentale che tratta l’eroismo e il superoismo da un punto di vista differente, con maturità e una spiccata disillusione che rimanda sovente all’universo semantico del noir (vedere, per credere, le prime tavole che descrivono la visita di Rorschach all’appartamento dell’ormai defunto Comico).
Come risaputo, la vicenda si svolge in un universo parallelo (ma molto reale) in cui gli Stati Uniti hanno vinto la Guerra del Vietnam, Nixon è ancora il presidente degli States (siamo nel 1985) e un gruppo di vigilanti mascherati formatisi nell’immediato secondo dopoguerra è stato ufficialmente proclamato fuorilegge dalla “Legge Keen” (dal nome del suo promotore) del 1977. La storia venne pubblicata per la prima volta, a puntate, tra il 1986 e il 1987 (anno in cui uscì anche l’edizione in volume unico). Sono passati quindi la bellezza di 34 anni da quando il primo albo vide la luce, eppure la graphic novel di Moore continua ad essere una fonte d’ispirazione inesauribile, nonché un punto di riferimento a livello culturale. Dopo essere stata trasposta malamente sul grande schermo da Zack Snyder nel 2008, alla fine dello scorso anno la graphic novel ha fatto il suo esordio anche nella serialità televisiva, ma in un modo molto particolare.
La serie Watchmen infatti più che adattare l’opera di Moore – cosa che sarebbe stata di per sé sterile -, dialoga con essa, proponendosi come una sorta di sequel che però è, al contempo, anche un omaggio e una rilettura (se vogliamo critica, ma su questo ci torneremo tra un po’) dell’originale. L’operazione messa in atto dallo sceneggiatore Damon Lindelof (The Leftlovers), oltretutto grande fan del fumetto, è piaciuta al pubblico, ma ancor di più alla critica come sta a testimoniare il trionfo qualche giorno fa all’ultima edizione degli Emmy Awards. In una manifestazione costretta a reinventarsi a causa dell’emergenza Covid-19, Watchmen si è aggiudicata ben 11 premi: Miglior Miniserie, Miglior Attrice Protagonista in una Miniserie o Film Tv (Regina King) e Miglior Attore Protagonista in una Miniserie o Film Tv (Yahya Abdul-Mateen II), insieme ad una valanga di premi tecnici.
Un successo annunciato e prevedibile data l’accoglienza che la serie aveva riscosso alla sua uscita, che ha premiato il coraggio dell’operazione, nonché la sua attualità da un punto di vista tematico. Partiamo innanzitutto dal coraggio, con una constatazione difficilmente contestabile: a Lindelof non piace vincere facile, e la sua carriera ne è la dimostrazione. Potrebbe mai uno sceneggiatore che si è fatto le ossa al fianco di J.J. Abrams, con il quale ha collaborato a una pietra miliare della serialità qual è Lost, propendere per una soluzione ovvia come quella di trasporre fedelmente l’opera di Moore? Assolutamente no! Perché allora non proporre una continuazione di quanto narrato in precedenza dal fumetto: dislocare la storia ai giorni nostri, inserire nuovi personaggi, recuperarne di vecchi (ma attenzione, non tutti, solo quelli veramente necessari al racconto), sviluppare piste narrative che la graphic novel aveva solo accennato per esigenze di racconto e, last but not least, affrontare temi più contemporanei. Tutto questo naturalmente senza mai mancare di rispetto all’originale, anzi, come già accennato, omaggiandolo continuamente, persino dialogando con esso per creare un’affascinante opera di metanarrazione.
Un’affascinante opera di metanarrazione
Watchmen è una serie complessa, le cui maggiori qualità non sono ravvisabili a livello meramente narrativo. In fin dei conti, possiamo dire che non è forse la storia in sé a rappresentare l’attrattiva maggiore dell’opera di Lindelof, verso la quale potremmo eventualmente anche muovere delle critiche. Le 9 puntante che contraddistinguono questa prima ed ultima stagione non sono tutte sullo stesso livello. La serie è caratterizzata da un crescendo drammaturgico che trova il suo apice nella sesta puntata: “Questo essere straordinario”. Un episodio quasi autosufficiente, per il quale non a a caso è stato utilizzato un registro estetico differente, ma talmente necessario a livello narrativo da rappresentare il punto di svolta verso un finale che però – ahimé, bisogna ammetterlo – appare troppo sbrigativo e, oltretutto, in controtendenza a livello concettuale con quanto visto in precedenza, con il ritorno in scena di alcuni personaggi “storici” dell’universo narrativo di riferimento e il progressivo ridimensionamento di quelli nuovi introdotti per la prima volta dalla serie.
Watchmen di Damon Lindelof, come detto, è ambientato negli Stati Uniti di oggi (naturalmente nella realtà alternativa già proposta dalla graphic novel). Sono passati più di trent’anni da quando il sopraggiungere di una forma aliena a New York ha raso al suolo l’intera città. Il mondo, all’epoca ormai prossimo alla Terza Guerra Mondiale (sempre States e Unione Sovietica a contendersi la leadership), abbandona ogni velleità guerrafondaia per far fronte a un nemico comune abitante nello spazio profondo. Il Dottor Manhattan si è autoesiliato su Marte, mentre il magnate e vigilante Adrian Veidt/Ozymandias (Jeremy Irons), in realtà il vero responsabile dell’atto terroristico che ha colpito la “Grande Mela” (a suo dire, ordito a fin di bene, per salvare il mondo), è misteriosamente scomparso e si è ritirato in gran segreto in una tenuta all’apparenza situata nella campagna britannica, circondato da una serie infinita di automi da lui stesso creati.
A governare gli Stati Uniti, dopo Nixon, troviamo il Democratico Robert Redford (che non compare mai), la cui popolarità è ai minimi storici dopo l’aver varato una serie di leggi che prevedono il risarcimento per tutti quegli afroamericani la cui famiglia ha subito discriminazioni a sfondo razziale. Gli eventi passati (raccontati da Moore), però, hanno provocato uno strascico anche nel presente: da una parte troviamo un gruppo terroristico sovversivo e reazionario che ha sposato il fanatismo integralista di Rorshach, il “Settimo Cavalleria”, i cui componenti infatti indossano una maschera come quella del compianto vigilante; dall’altra invece scopriamo che le forze dell’ordine sono costrette invece a operare coperte da una maschera per salvaguardare la loro identità e quella delle loro famiglie (minacciate dal gruppo terroristico citato poc’anzi), e il cui motto è: “Chi sorveglia i sorveglianti? Noi li sorvegliamo” (con chiaro riferimento alla locuzione latina di Giovenale già citata nell’opera di Moore).
Un contesto ben diverso, quindi, rispetto a quello lasciato in eredità dalla graphic novel. Al centro della narrazione, poi, è posto quello che potremmo definire il “tema cardine” dell’opera di Lindelof: il razzismo e la conseguente spirale di violenza che ha visto coinvolta – nei secoli – la minoranza afroamericana. Una tematica molto attuale, come testimonia anche il recente omicidio di George Floyd e la conseguente ondata di proteste al grido “Black Lives Matter” che ha coinvolto (e continua tutt’ora a coinvolgere) gran parte degli Stati Uniti. Da questo punto di vista, non è un caso che Watchmen sia ambientato nella “periferica” città di Tulsa, in Oklahoma, anziché – come ci aspetteremmo – a New York. Una scelta a prima vista bizzarra, ma in realtà determinata e giustificata dal taglio dato da Lindelof alla storia.
Il taglio di Damon Lindelof alla storia di Watchmen
Come si sarà capito, la scelta della location è tutt’altro che casuale. Lo si intuisce già dalla prima sequenza della serie, anche se per comprenderne a pieno la motivazione bisogna attendere almeno qualche puntata. Watchmen inizia in una sala cinematografica dove un bambino afroamericano sta guardando un film muto in b/n con protagonista un eroico sceriffo di colore mascherato: Bass Reeves, oltretutto riferimento a un personaggio storico realmente esistito. La visione è interrotta da quanto sta accadendo all’esterno del cinema. L’azione si svolge a Tulsa, ma non nella contemporaneità (come d’altronde dimostra la proiezione del vecchio film), bensì nel 1921. Ora, almeno che uno non sia esperto di Storia americana, per uno spettatore non statunitense è pressoché improbabile sapere (e neanche lontanamente immaginare) cosa accadde in quell’anno nella città dell’Oklahoma tra il 31 maggio e il 1° agosto: un evento drammatico che è passato alla storia come i “disordini razziali di Tulsa”. Si trattò del linciaggio sistematico della popolazione afroamericana, perpetrata dalla popolazione bianca locale, che causò la morte di almeno 300 persone. I disordini diedero vita a uno scenario bellico che vide persino il coinvolgimenti di piccoli aerei privati (lo si vede nella serie), e che mise Tulsa letteralmente a ferro e fuoco.
Un’inferno che Watchmen ci restituisce in tutta la sua brutalità attraverso la storia di quel bambino strappato alla sua famiglia che riesce miracolosamente e a mettersi in salvo, il quale si troverà a recitare poi un ruolo fondamentale all’interno dell’universo narrativo proposto da Lindelof. Una scelta, quella di trattare il tema del razzismo, lo abbiamo detto, spiazzante; anche perché mai nel fumetto di Moore si era posto l’accento sulla questione razziale (e qui, se vogliamo, c’è una prima presa di posizione critica nei confronti del fumetto). Ma i tempi cambiano, sembra dirci Lindelof: l’epoca della “Guerra Fredda” è finita, il mondo si è “rasserenato” da quel punto di vista, ma ci sono altre guerre, altre battaglie (oltretutto giuste) magari sottaciute che per troppo tempo sono rimaste nell’ombra e ora hanno diritto di essere raccontate e combattute.
Se vogliamo, l’operazione di rilettura della graphic novel proposta da Lindelof non è poi così dissimile da quanto fatto da Francis Ford Coppola per Apocalipse Now. Trasponendo al cinema il romanzo di Joseph Conrad Cuore di tenebra, Coppola anziché propendere per un fedele adattamento, riprende la struttura narrativa originale, alterando e modificando alcune componenti, imbastisce un dialogo con l’opera dello scrittore britannico, rimane fedele al suo spirito (tant’è che è difficile trovare un adattamento così fedele a livello concettuale), ma allo stesso tempo disloca la vicenda nella contemporaneità. Così, se alla fine del XIX secolo per Conrad il “cuore di tenebra” non poteva che essere il Colonialismo, alla fine degli anni ’70 per Coppola era forse inevitabile chiamare in causa l’orrore – per dirla alla Kurtz – della Guerra del Vietnam (conclusasi ufficialmente solo quattro anni prima dell’uscita del film, nel 1975).
Il tema razziale viene sviluppato in Watchmen in maniera organica, facendo perno direttamente sulla storia raccontata e soprattuto prendendo spunto proprio dall’opera di Moore, prolungando creativamente linee narrative solo abbozzate nella graphic novel. Per dare maggior spessore al tema, Lindelof elegge a protagonista della vicenda un personaggio afroamericano: l’agente di polizia nonché sorvegliante mascherata Angela Abar/Sorella Notte (Regina King). Ma spinge ancora oltre. Conscio della necessità di dare un passato al personaggio, in modo tale renderlo meno schematico e più profondo a livello psicologico, nonché per evidenziare un legame (anche se indirettamente) con l’universo narrativo di riferimento: la fa nascere e crescere in un Vietnam divenuto ormai il 51esimo Stato americano, la fa “entrare in contatto” con Doc Manhattan, ma sopratutto la lega a uno dei personaggi storici del fumetto (anche se secondario). Il nonno di Angela, infatti, è Will Reeves (Louis Gossett Jr.), ovvero il bambino che vediamo all’inizio della prima puntata scappare da Tulsa nel 1921, ma anche colui che molti anni dopo vestirà i panni del misterioso Giustizia Mascherata, il sorvegliante la cui identità fino ad oggi era sconosciuta (nella graphic novel sono avanzate delle ipotesi su chi si celi dietro la sua maschera, ma non viene mai menzionato un afroamericano).
Lindelof quindi si inserisce nelle “crepe” del racconto di Moore, creando un passato al personaggio di Will Reeves e dando una spiegazione circa la sua scelta di mantenere l’anonimato anche di fronte ai suoi colleghi: i suoi compari, alcuni dei quali decisamente reazionari e razzisti (il Comico, ad esempio), avrebbero mai potuto accettare un afroamericano tra di loro? Una linea narrativa che pervade chiaramente tutta la serie, anche se non si può definire la principale date le innumerevoli trame che acquistano importanza lungo il corso del racconto, la quale comunque testimonia l’interesse della serie a confrontarsi con temi di grande attualità, facendo dell’universo seriale di Watchmen quasi uno specchio degli Stati Uniti trumpiani (un po’ come, in fin dei conti, il fumetto faceva nei confronti dell’America reaganiana).
Uno specchio degli Stati Uniti trumpiani
Già in questo macrotema affrontato si evince l’interesse di Lindelof nei confronti di quella “metanarrazione” a cui abbiamo fatto riferimento poc’anzi. Effettivamente, la serie Watchmen imbastisce un dialogo con l’opera da cui trae ispirazione che permea l’intero sviluppo narrativo. Abbiamo detto, in precedenza, che tornano alcuni dei personaggi “storici”: i già citati Doc Manhattan e Veidt, ma anche un’ormai anziana Laurie Blake/Spettro di Seta (Jean Smart), divenuta un’agente dell’FBI. A farne le spese, in questo sequel televisivo, sono invece Daniel Dreiberg/Gufo Notturno (una scelta dolorosa per gli amanti della graphic novel) e naturalmente Rorchach, morto nell’ultimo capitolo del fumetto ma la cui eco si riverbera – sotto svariate forme – anche nella serie (e non potrebbe essere altrimenti, data la natura iconica del personaggio).
Non solo, infatti, a Tulsa agisce il gruppo rivoltoso armato promotore della supremazia bianca il “Settimo Cavalleria” – che oltretutto è entrato in possesso del famigerato “Diario di Rorschach”, in cui il vigilante confessa il coinvolgimento di Veidt nel disastro di New York -, ma vi è anche un personaggio nella serie che, di fatto, fa le veci dell’intransigente antieroe mascherato: il poliziotto/vigilante Wade Tillman/Specchio (Tim Blake Nelson). Contraddistinto da una maschera non dissimile a quella di Rorchach, che però anziché cambiare forma ha qualità riflettenti, Wade è un personaggio borderline la cui vita è stata segnata, come quella del suo predecessore Walter Joseph Kovacs, da profondi traumi.
Ma gli elementi speculari tra graphic novel e serie tv non si fermano qui. A volte sono sottili riferimenti, o vere e proprie easter eggs: nella prima puntata, ad esempio, quando la protagonista Angela si sta preparando la colazione, l’uovo che rompe e fa scivolare in padella assume le sembianze dell’iconica spilla del Comico; il riferimento a Robert Redford come presidente degli States non è causale, infatti già nell’opera di Moore si sosteneva che l’attore fosse prossimo a candidarsi; e ancora, pensiamo al mezzo aereo usato dalla polizia di Tulsa, identico (e infatti ne trae ispirazione) da quello utilizzato da Gufo Notturno. Abbiamo fatto solo qualche esempio, ma se ne potrebbero citare tanti altri.
Tutti questi elementi, anche quelli all’apparenza meno necessari a livello narrativo, testimoniano come la serie Watchmen sia impossibile da slegare dall’opera di Moore da cui trae origine, pur cercando di percorrere una strada molto diversa rispetto al suo predecessore. Al di là dell’avvincente storia che racconta, per riuscire a entrare nel contorto meccanismo narrativo “ordito” da Lindelof è evidente che lo spettatore debba conoscere (a menadito, non superficialmente) la graphic novel. Solo in tal modo è possibile comprendere (e, perché no?, partecipare a) quel dialogo tra le due opere, quella letteraria e quella seriale; un dialogo che sviscera le potenzialità e il fascino di un progetto lungi dall’essere perfetto in sé, ma straordinario nel portare avanti ed aggiornare un “discorso” iniziato ben 34 anni prima (e oltretutto su un altro medium).
La coraggiosa scelta di Lindelof di costruire una serie attraverso un doppio movimento tra passato (la graphic novel) e presente/futuro (il rinnovamento a livello narrativo, stilistico e contenutistico), nonché la decisione (forte) di non cercare il facile consenso del pubblico ma “costringere” quest’ultimo a fare i conti con una rilettura dei topoi dell’opera di Moore e a diventare parte attiva del “discorso” portato avanti dalla serie, fanno di Watchmen un manifesto della serialità d’autore. Ed è soprattutto per questi motivi strettamente metanarrativi che l’opera di Lindelof ha meritato gli Emmy che si è aggiudicata qualche giorno fa; premi che testimoniano una volta di più la libertà creativa di cui gode ormai da anni la serialità televisiva. A differenza di un cinema che sembra continuamente ricorrere al già visto pur di attrarre spettatori in sala – non è un caso che negli ultimi anni si siano moltiplicati remake e “Live Action” -, le serie tv seguono, in generale, un percorso diverso: più sperimentale, più rischioso, più impegnato e più stimolante. Da questo punto di vista Watchmen ne è una prova tangibile.