The Eyes of Tammy Faye (Gli Occhi di Tammy Faye) è il film di Michael Showalter che vede come protagonista – e mattatrice assoluta – del progetto (nonché produttrice) la splendida attrice Jessica Chastain, vista di recente nella serie di Hagai Levi Scene da un matrimonio, presentata insieme al collega Oscar Isaac durante la scorsa edizione di Venezia 78. Con la sua capacità di scavare a fondo nella psicologia di personaggi complessi così da mostrare, in tal modo, le innumerevoli sfumature dell’essere donna, la Chastain si sta proiettando sempre di più tra le stelle del firmamento hollywoodiano, confermandosi come un’attrice versatile e profonda. Al suo fianco, in questa nuova avventura basata sull’omonimo documentario del 2000 diretto da Fenton Bailey e Randy Barbato, c’è un brillante Andrew Garfield (nei panni del predicatore Jim Bakker, marito della Faye) e Vincent D’Onofrio, quest’ultimo presente – insieme alla Chastain e alla produttrice dell’opera – per presentare il film durante l’apertura della 16esima edizione della Festa del Cinema di Roma.
Il film racconta la vera storia di Tammy Faye Bakker (Chastain) e di suo marito Jim (Garfield), due predicatori televisivi americani che negli anni 70′ e 80′ ebbero uno straordinario successo prima di incontrare un repentino – quanto rovinoso – tracollo finanziario. Dopo essersi conosciuti da giovanissimi, i due diedero vita al più grande canale televisivo religioso degli Stati Uniti diventando dei veri e propri punti di riferimento per tantissimi americani evangelisti. Ma gran parte del successo televisivo passava per la natura eclettica di Tammy Faye, che divenne presto nota per le sue straordinarie ciglia, il modo unico di cantare e la sua amorevole attitudine nel dare accoglienza e accettare persone di ogni ceto sociale e con ogni tipo di esperienza di vita. Eppure questo successo straordinario s’incrinò all’improvviso quando, nel 1987, uno scandalo sessuale coinvolse Jim, abbattendosi subito dopo sulla loro vita di coppia e perfino sulla fiducia incontrollata che riponevano nella fede in Dio.
The Eyes of Tammy Faye è un biopic dall’impianto classico che cerca di ripercorrere l’ascesa e la caduta di un impero economico nato in seno alle contraddizioni del cuore dell’impero occidentale; una storia tipicamente americana narrata attraverso lo sguardo – trasognato e atipico- di una delle protagoniste, in un turbine di zelo religioso e desideri inespressi. Una storia in effetti molto lontana dalla realtà culturale italiana, non abituata a vedere figure carismatiche di predicatori televisivi e imbonitori di massa alla ricerca delle luci della ribalta. Il mondo mostrato dalla macchina da presa di Showalter è effimero, sagomato da luci e ombre in continua lotta tra loro, capace di sfiorare tanto l’alto – la sfera religiosa – quanto il basso, il baratro indefinito dei desideri inespressi che si agitano nel cuore di tenebra di ogni essere umano. I predicatori mostrati sul grande schermo sembrano frutto di fantasie elaborate, di slanci creativi da parte degli sceneggiatori, ma sono in realtà più veri del vero e pronti a superare la realtà stessa: uomini che bramano la materia ma predicano lo spirito, nella speranza di conquistare il regno dei cieli (e un impero in terra).
In questo club declinato esclusivamente al maschile – visto che la storia narrata si snoda dagli anni ’50 fino ai ’90 inoltrati – si impone la figura di Tammy, una pin up cattolica della Bible Belt, una Betty Boop trasognata che sogna di diffondere il messaggio universale della Fede: Dio ama tutti, ed è importante amare tutti, ascoltare ogni singolo essere umano colto nei propri dolori e nelle sue necessità. Tammy Faye è l’anello di congiunzione perfetto tra il mondo dello spettacolo televisivo americano – eccessivo e sfarzoso, opulento e arrogante – e un’idea della religione sempre più pop e mainstream, il tutto collocato in un’ottica tipicamente americana che ben potrebbe essere riassunta da una contraddittoria immagine di Norman Rockwell. Il trucco vistoso e lo stile cheap della donna non sono, in questo caso, una maschera per nascondere la vera identità della protagonista: piuttosto, sono tracce della sua personalità, emanazioni della sua essenza che esplode in un complesso bengala di emozioni, lati più oscuri e ciechi, consapevolezze distorte e mistici slanci verso l’Altissimo.
Tammy usa il corpo e la voce per “innalzare” la propria anima, così come Jessica Chastain ha usato entrambi per calarsi nei panni della stessa Faye, lavorando dall’esterno verso l’interno: la sua consapevolezza della psicologia del personaggio è cresciuta mentre ne studiava i movimenti, il timbro della voce, gli sguardi (come ha rivelato durante la conferenza stampa) fino a trovare quella sintonia alchemica che l’ha trasformata, sullo schermo d’argento, nella Faye stessa. E il risultato è un’impressionante performance capace di valicare i limiti della prostetica, facendo risaltare la profonda umanità fragile ma tenace della predicatrice che è sopravvissuta al tracollo dell’impero economico dei Bakker, trovando il proprio riscatto tra il pubblico che l’ha sempre amata e sostenuta, assurgendo anche al ruolo di icona della comunità LGBTQIA per via del suo attivismo nei confronti dei diritti di quest’ultima e della sensibilizzazione nei riguardi dell’HIV/AIDS.
E proprio lo sguardo diventa il focus del film, già a partire dal titolo: The Eyes of Tammy Faye, gli stessi occhi che monopolizzano la prima inquadratura – un primissimo piano – della matura televangelista, occhi che si trasformano in specchi limpidi aperti su un mondo sporco e corrotto, dominato dagli interessi e dagli egoismi dei singoli, dall’avidità che sembra muovere ogni loro scelta. E attraverso gli occhi di Tammy Faye è mostrata l’intera vicenda, attraverso il suo punto di vista viene filtrata la storia, raccontando la sua versione. Una scelta specifica che non riesce però a salvare il ritmo del biopic, fin troppo classico nella sua confezione quanto nella struttura: con Showalter che sceglie di ristabilire la rigida gerarchia dello spazio-tempo aristotelico, il risultato è quello di un biopic convenzionale nel narrare la vita del protagonista di turno tra immagini vere di repertorio, una drammaturgia canonica e ritmica scandita dallo scorrere degli anni, con quest’ultimi che si susseguono inarrestabili sullo schermo ma privi del tipico fascino complesso del cinema post-moderno.