Il viaggio dell’eroe è un archetipo antico e imprescindibile per il mondo dello storytelling: alla base tanto dell’epos omerico (e non solo), quanto della contemporanea deriva post-moderna della settima arte, nessun film (o serie tv) può prescindere da questo caposaldo per raccontare una storia, qualunque sia il genere alla quale appartiene quest’ultima.
E proprio la complessità stratificata della costruzione di un personaggio determina il taglio del prodotto finale: appartiene al “mondo” dell’high concept, nel quale contano più gli eventi mostrati e il loro ritmo (a costo di sacrificare la psicologia dei characters presentati), oppure a un universo narrativo che si muove, sinuoso, tra le luci e le ombre degli umani che si agitano sullo schermo, figurine – fatte di carne ed ossa – alle prese con pensieri, contraddizioni e dilemmi morali che sviano l’attenzione dello spettatore dagli intriganti intrecci della trama?
Creed III, nuovo capitolo della saga nata in seno allo “storico” brand di Rocky con Sylvester Stallone, tenta di conciliare questi due aspetti in apparenza così contraddittori tra loro, portando sullo schermo una storia inedita che arriverà nelle sale dal prossimo 2 marzo.
Distaccarsi dalla matrice originale
Adonis “Donnie” Creed (Michael B. Jordan, qui nella duplice veste di attore e regista) ha seguito le gloriose orme paterne nel mondo della boxe, grazie anche agli insegnamenti dell’allenatore Rocky Balboa (Stallone) che lo ha aiutato a trovare la propria strada, costruendosi una solida carriera costellata di successi e soddisfazioni sportive e personali, grazie anche all’unione con Bianca (Tessa Thompson) e alla nascita della piccola Amara.
Ma la quiete dopo il ritiro dalle scene – e dal ring – dura poco, complice il ritorno dell’ex amico d’infanzia Damian “Dame” Anderson (Jonathan Majors, visto di recente in Ant-Man and the Wasp: Quantumania), pronto a riprendersi (ad ogni costo) ciò che ha perduto nel corso degli ultimi diciott’anni passati in carcere. Adonis sarà quindi costretto a tornare a boxare per difendere il proprio futuro e quello della sua famiglia, affrontando il nemico peggiore: il proprio passato.
Creed III segna il definitivo distacco – dopo il secondo capitolo – dalla matrice originale di Rocky, scivolando con determinata discrezione nel cuore pulsante della nuova “Creed-saga” che ha ormai, sempre più, il marchio inconfondibile di Jordan e di un universo narrativo distante anni luce dai temi – e dai contesti socio-antropologici – che costituivano il background dei primi film con protagonista Balboa.
Se in quel caso il tema cardine era il riscatto, in nome del quale si batteva un umile ragazzo italo-americano per offrire alla propria famiglia un futuro migliore, trovando la propria dimensione ideale proprio sul ring, nel “Creed-verse” Adonis/Jordan ha raggiunto l’acme personale, conquistando uno standard sociale invidiabile: ma se “per ogni su, c’è sempre un giù”, la stabilità costruita dal boxer è destinata ad incrinarsi mentre è coinvolto nel vano tentativo di recidere ogni legame con il passato, spettro inquieto che torna a visitare le anime dei vivi.
Dame Anderson è un fantasma del Natale passato tornato a perseguitare Adonis, ricordandogli chi è e da dove viene, ma anche qual è la fonte della sua rabbia sul ring; un riflesso scomodo che il figlio di Apollo Creed ha cercato di dimenticare e, infine, di tenere sotto controllo, ma con scarsi risultati. Per liberarsene dovrà imparare prima ad accettarlo e poi a combatterlo, affrontando l’incontro più difficile della propria carriera.
Dame non è il classico antagonista, l’anti-eroe negativo che trama nell’ombra; piuttosto, in uno schema della fiaba di Propp estremamente fluido e post-moderno, è un comprimario importante che finisce per rubare la scena alle ragioni del protagonista, complice una scrittura centrata e solida, ma soprattutto l’interpretazione dolente e rabbiosa di un ottimo Majors, che conferma ancora una volta il proprio talento in forte ascesa.
Se Adonis ha tutto e deve lottare per difendere – e ripristinare – uno status quo, Dame è alle prese con quel riscatto á-la-Balboa che riconduce subito al passato della saga, in uno strano cortocircuito comunicativo; ed è interessante vedere come il cinema mainstream stia tentando di aggiornare, per i grandi schermi dell’intrattenimento di massa, schemi e moduli archetipici che perdono progressivamente i propri contorni, fino a sfumarli e a confondere ruoli e messaggi.
Un franchise radicato nella contemporaneità
Non c’è niente di canonico in Creed III, eppure guarda con fermezza alle forme del cinema classico che ha segnato il successo di un’intera stagione della settima arte, insinuandosi nel solco di una continuità felice che ne conferma i risultati, garantendo un lasciapassare per il futuro dell’entertainment in sala, complice anche la regia di un “esordiente” Michael B. Jordan che sa trovare, fin da subito, una propria cifra stilistica riconoscibile, senza trasformare gli incontri di Creed III in uno show di pugilato televisivo, ma trasfigurando – attraverso le immagini – il ring in una grande metafora dell’esistenza.
Creed III riesce nel difficile tentativo di diventare autonomo rispetto alla matrice originale della saga di Rocky Balboa, tracciando il solco per il futuro di un intero franchise sempre più radicato nella contemporaneità, tra riferimenti importanti (i problemi di udito di Bianca e Amara, ad esempio) che traghettano il progetto in una nuova dimensione inclusiva in grado di rappresentare un pubblico sempre più ampio.
Un intento nobile che rischia, purtroppo, di inciampare in un pericoloso tranello legato al concetto di prevedibilità: quando una scrittura è così figlia dei propri tempi (soprattutto, i nostri), il rischio da parte dello spettatore è quello di sapere già in anticipo che piega prenderanno gli eventi, quali scelte coinvolgeranno i personaggi e che peso specifico avranno le loro decisioni nell’economia del film.
Tutto è pianificato, niente è lasciato al caso (o al libero arbitrio dei personaggi); ogni mossa segue il pattern già scritto del linguaggio contemporaneo, pronto a pagare il proprio debito con un’inclusione ad ogni costo e una semplificazione delle sovrastrutture narrative via via sempre più evidente.