“I wanna be loved by you, just you. And nobody else but you”, cantava Marilyn Monroe in A qualcuno piace caldo. Ed effettivamente è come se per tutto il film la Blonde Bombshell lo dicesse a noi spettatori. Una richiesta di affetto che chiede da quando è bambina alla madre malata e violenta e al padre che non ha mai conosciuto ma che spera un giorno di incontrare. Il bisogno di una figura paterna che cerca nei volti degli uomini (chiama tutti “Daddy”), da cui ottiene solo sofferenza.
Blonde di Andrew Dominik (L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford), presentato in Concorso a Venezia 79, parte dal 1933, quando non esisteva Marilyn ma solo una ragazza di nome Norma Jeane Baker dai capelli castani, il biondo platino dovrà aspettare. L’infanzia difficile, la reclusione della mamma in un ospedale psichiatrico, poi uno stacco e subito il successo: i primi lavori da modella, i corsi di recitazione, gli abusi e poi si arriva al cinema.
Ci si sofferma inevitabilmente sulla famosa scena della gonna in Quando la moglie è in vacanza, che l’ha definitivamente consacrata. Una lunga panoramica attorno a quel corpo esposto e fotografato in continuazione, corpo vittima sacrificale dei tanti uomini che l’hanno abusata. La bellezza che Marilyn usa con sicurezza per cercare attenzioni viene offuscata e diventa un semplice pezzo di carne da macello.
Si arriva ad esplorare perfino l’utero che viene aperto per espellere le sue creature (i tre aborti in totale che ha subito). Il bambino dentro di lei è presente in molte scene in un corpo malato, marcio che non può dare la vita ma che è solo oggetto di desiderio e sfruttamento. Si arriva poi al 1962: la tossicodipendenza, gli amori. Fino alla morte, in solitudine.
Blonde, un biopic in cui c’è poco di Marilyn Monroe ma tanto di Norma Jeane Baker
Non è un biopic tradizionale Blonde. Sì, ci vengono presentati i vari momenti della vita dell’attrice, ma più che per una necessità di ricostruire cronologicamente la storia, sono eventi che sembrano flash che suscitano emozioni nella protagonista. Una visita non guidata dove ci perdiamo nella mente della diva di Hollywood in un trip che sembra quasi un film di Lynch e in alcuni momenti uno di Bergman (soprattutto per i primi piani e le confessioni che Marilyn fa davanti alla macchina da presa); momenti introspettivi dalle tinte quasi horror, il tutto accompagnato da tagli bruschi, cambi di formato dal 4:3 al 16:9, scene a colori ed altre in bianco e nero; un bianco a volte talmente abbagliante da far scomparire il volto della protagonista come il flash dei fotografi che si accalcano in massa per scattare ogni momento.
Ana de Armas (vista di recente in The Gray Man) ha dovuto fare un lavoro di un anno su Marilyn e sul suo accento (essendo l’attrice cubana). La sua Norma si confida allo spettatore e si lascia psicanalizzare dalla macchina da presa che a sua volta valorizza la sua interpretazione. C’è poco di Marilyn Monroe ma tanto di Norma Jeane Baker e dei suoi traumi. Non si capisce se Dominik abbia sempre le idee chiare sul personaggio e sulla persona: è difficile trovare sempre un filo logico nelle sue scelte, ma forse il suo intento non è mai stato quello di trovarci un ordine. Del resto, la mente dell’uomo è quanto di più confusionario esista.
Sicuramente, ciò che ne esce fuori è un film violento, disturbante e anche molto critico verso Hollywood e lo sfruttamento delle dive (richiamando da questo punto di vista Judy con Renée Zellweger). La domanda che ci si pone è se era veramente necessario un altro film su Marilyn: la risposta è no, ma proprio per il lavoro che è stato fatto, Blonde di Andrew Dominik merita almeno una possibilità.