The Whale sbarca a Venezia 79, riportando sotto le luci dei riflettori il suo regista Darren Aronofsky (avvistato l’ultima volta, al Lido, con l’opera Madre!) e Brendan Fraser, attore americano protagonista del film nei panni di un uomo che soffre di grave obesità ed è chiuso nella propria casa; ma l’uomo, nonostante le difficoltà, cerca a tutti i costi di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente, interpretata da Sadie Sink (Stranger Things). Un regista e due attori, tutti presenti alla Mostra per presentare il film in concorso insieme al drammaturgo Samuel D. Hunter, autore sia dell’adattamento che dell’opera teatrale originale.
La prima volta che Aronofsky vide quest’opera era a teatro nel 2016 e rimase subito colpito da un aspetto in particolare: «Questa pièce parla di collegamenti umani, quelli che nel corso degli ultimi anni molti di noi hanno interrotto forzatamente a causa del Covid. L’importanza di vestire i panni degli altri, di entrare nelle teste degli altri è ciò di cui il mondo ha bisogno. Ricordo esattamente tutto del debutto di The Whale a teatro: articoli, critiche, foto… e ho pensato subito: ecco, potrebbe piacermi. Così sono andato a vedere a teatro l’opera di Samuel e sono rimasto profondamente colpito, cercando immediatamente di contattarlo. E abbiamo iniziato a discutere subito dell’opportunità di adattarlo per lo schermo, anche se sono passati dieci anni dal nostro primo incontro».
Un emozionato Aronofsky alla presenza della stampa ha così riassunto il suo primo incontro con il drammaturgo Samuel D. Hunter, soprattutto le sensazioni provate dopo la prima visione della pièce, che è un’opera incentrata tanto sulle relazioni personali quanto sugli spazi, che potrebbero diventare claustrofobici e compressi nel mondo di Charlie, professore di inglese affetto da grave obesità.
«Ho cominciato con ventimila dollari e il sogno di realizzare un film», ha commentato il regista «e ho capito subito che i nostri limiti non sono di fatto la nostra via per la libertà, e che quindi è necessario vederli come una sfida. In Madre! ero confinato in una casa, qui invece in un unico appartamento, vincolato ad un personaggio poco mobile che non poteva muoversi liberamente, e ho cercato di capire come renderlo cinematico, interessante e appetibile per il grande schermo. Quando ho visto il primo taglio – uno dei momenti più difficili, su cui bisogna lavorare molto dopo la primissima fase di montaggio – ho provato un senso di sollievo, perché non ho avuto una sensazione di claustrofobia guardandolo, forse grazie al modo in cui ho utilizzato la cinepresa ma anche per la sceneggiatura di Samuel, attraverso al quale possiamo imparare molto su questi personaggi che si rivelano pian piano, come in un mistero. Sapevo che il materiale di base, quello teatrale, aveva del potenziale per poter adattare questo ambiente mantenendo alto l’interesse dello spettatore.
Per realizzare questo film ho impiegato, appunto, dieci anni, durante i quali sono andato alla ricerca dell’attore giusto per interpretare Charlie. Ho visto i provini di tanti attori, ma nessuna mi aveva dato l’idea che fosse quello giusto; non provavo quelle emozioni che stavo cercando. Poi, per caso, ho visto il trailer di un film brasiliano low budget dove c’era Brendan e questa è stata una vera illuminazione: ci siamo incontrati, e l’ho trovato subito perfetto. Ma per convincere Samuel ho dovuto organizzare una lettura a teatro insieme a Sadie che si è tenuta prima del grande lockdown del 2020, quando poi abbiamo deciso di girare comunque, con una crew ristretta e soltanto cinque attori, per realizzare tutti insieme questo piccolo film gentile, nel quale ci sono due temi ricorrenti: il primo è che “non si giudica mai un libro dalla copertina”. Infatti non possiamo giudicare nessuno dei personaggi attraverso la nostra prima impressione: il modo attraverso il quale Charlie sprona i suoi studenti nel cercare l’onestà e la verità proprio al di là di quella copertina l’ho trovato, appunto, di grande ispirazione.
Il secondo è l’amore: il personaggio di Charlie sostiene, in una battuta, che le persone non siano capaci di non amare. È una visione ottimistica che cerca di lottare contro un punto di vista più cinico, quello dominante in un’epoca come la nostra in cui molti stanno abbracciando il loro lato oscuro: non abbiamo bisogno di ciò in questo momento. Dobbiamo accogliere tutti l’idea che, sotto sotto, ci amiamo l’un l’altro e dobbiamo aggrapparci a ciò che proviamo».
Charlie è un baluardo di ottimismo in un mondo cupo, nonostante la convivenza con un corpo che è diventato la sua prigione, soprattutto per nascondere i traumi e le ferite tragiche che hanno segnato il suo passato: un ruolo importante e sfaccettato nel quale Brendan Fraser si è calato con tutto se stesso:
«Entrare nel corpo di un’altra persona raccontando la storia di The Whale è stata una grandissima occasione» ha dichiarato l’attore. «Il mio viaggio da interprete mi ha condotto dove sono oggi, ed è stato volto a cercare di esplorare moltissimi personaggi diversi, e questa per me è ogni volta una sfida grandissima. Io credo che Charlie sia il personaggio più eroico che io abbia mai rappresentato sullo schermo, perché ha un super-potere speciale: vene il bene negli altri e riesce a farlo emergere, ed è questo il processo attraverso il quale riesce a salvarsi.
Per quanto riguarda il concetto di “navigare nello spazio”, è importante notare come la mobilità fisica di Charlie sia limitata allo spazio interno della sua casa, composta soprattutto dai baluardi del divano e della poltrona. La storia che ha luogo dietro le porte chiuse è una luce che attraversa un luogo oscuro, e credo che sia quasi poetico che il trauma – quello che si porta dietro – si manifesti sul piano fisico attraverso il suo corpo. Da attore, ho dovuto imparare a muovermi in modo nuovo: ho sviluppato dei muscoli che non sapevo nemmeno di avere arrivando perfino a sentire delle vertigini alla fine della giornata, un po’ come quando si scende da una barca. Quella sensazione ondulatoria mi ha permesso di apprezzare coloro che hanno corpi di quel tipo, perché ho imparato che bisogna essere particolarmente forti fisicamente – soprattutto mentalmente – per abitare quello spazio fisico».
Ad aggiungere qualcosa in più su The Whale è proprio il suo creatore, lo sceneggiatore e drammaturgo Samuel D. Hunter, che così riassume la profonda esperienza umana – prima ancora che creativa – dietro l’opera:
«Charlie, il protagonista di The Whale, è una persona che sta cercando la verità. E in questa storia sono proprio le verità del suo passato a diventare degli ostacoli che non è in grado di affrontare: così, nel film vediamo questo processo dove lui comincia ad elaborarle, pur di aiutare e salvare le persone che lo circondano. Ho iniziato a scrivere il personaggio mi sono basato su esperienze molto personali. La storia è ambientata nella mia città natale, io stesso ho una storia di depressione alle spalle e mi sono sempre confortato con il cibo. Ero un ragazzo gay in una cittadina di provincia e le cose, per me, non sono mai state semplici. Le mie opere non sono mai apertamente autobiografiche ma trattano di argomenti personali, e The Whale è la più personale che io abbia mai scritto, tanto da avere paura di scrivere il personaggio di Charlie; per farlo, c’era un unico modo. Dovevo scrivere da un luogo molto profondo, fatto di amore ed empatia, verso una persona che ha una solida fiducia nelle persona e continua ad averla nonostante tutto quello che gli è successo; mi ha guidato un senso di speranza, ottimismo e fiducia verso gli altri, tutto ciò che ha salvato anche me».
The Whale arriverà prossimamente nelle sale italiane.