Presunto Innocente, il romanzo di Scott Turow, creava una storia dai meccanismi classici del legal drama in cui da padrone la fanno i grigi intorno a concetti invece considerati normalmente universali come “bugia”, “verità”, “innocente” e “colpevole”. I meccanismi più avvincenti dello sviluppo narrativo del libro si appoggiavano su quelli dell’intreccio del giallo da tribunale, grazie ai quali si allargava il raggio a temi politici e di coppia. Il film omonimo del 1990 con Harrison Ford ripartiva soprattutto da questo ultimo fatto per la destrutturazione del nucleo famigliare tradizionale e sul ruolo del protagonista apparentemente integro e senza macchia.
La miniserie originale Apple di 8 episodi, disponibili dal 12 giugno, intitolata anch’essa Presunto Innocente, ideata da niente poco di meno che David E. Kelley (già dietro miniserie come Big Little Lies e The Undoing), con protagonista Jack Gyllenhaal, che è anche produttore insieme a J. J. Abrams, affiancato da Ruth Negga, Peter Sarsgaard, Bill Camp, O-T Fagbenle e Renate Reinsve, funziona nella misura in cui riesce ad ampliare ulteriormente questo aspetto della storia originale. Se, infatti, il lato legato al lavoro sul genere risulta ampiamente già visto, masticato e digerito dal grande pubblico, l’alto lato, quello che ha la capacità di utilizzare il linguaggio per affettare e tagliare ciò che considerato bianco o nero, divenendo metafora dell’ambiguità insita nella morale di ognuno di noi ad ogni livello, è ciò che rende il titolo degno di una visione. Tutto è pensato in quel senso, sia le prove di un cast di grandi nomi (ma non sempre all’altezza) e sia le regie di Anne Sewitsky e Greg Yaitanes, che cercano sempre il punto di vista parziale, lo sguardo che sbircia e che quindi non arriva mai ad avere un giudizio totale.
Chi è veramente Rusty Sabich?
Il vice procuratore Rusty Sabich (Gyllenhaal) è un uomo tutto d’un pezzo, di quelli che non devono chiedere mai. Un punto di riferimento per la comunità perché avvocato numero uno del team comandato Raymond Horgan (Camp), procuratore avanti con l’età e in procinto di dover affrontare una campagna elettorale per la propria conferma in cui concorrerà contro il più giovane Nico Della Guardia (Fagbenle). Giovane, aitante e arrogante per la precisione, specialmente perché affiancato dall’altro avvocato del team, tale Tommy Molto (Sarsgaard). Uno che di interessante ha solo il cognome e soffre di evidenti problemi di invidia nei confronti di Sabich. Tutto va bene (anche se si scoprirà poi che tutto andava già male) fino a quando viene brutalmente assassinata l’avvocatessa ultimo membro del team del procuratore nonché braccio destro di Sabich, la giovane Carolyn Polhemus (Reinsve).
Evento che sciocca tutti e che provocherà una svolta nelle vite dei colleghi della vittima e dei loro cari, specialmente quando tra i possibili sospettati spunta il nome di quello che poi sarà il nostro “presunto innocente”, il buon Rusty. Degli eventi scomodi che si susseguono ad un ritmo vertiginoso e che travolgono come un tornado anche la famiglia dell’uomo, mandando in crisi la moglie Barbara (Negga) e i due figli adolescenti. Per loro si aprirà una visione del tutto nuova su Rusty, che sconquasserà le radici del loro equilibrio, soprattutto perché scopriranno quanto era precario e quanto era solo questione di tempo prima che le cose precipitassero. Il tempo di risolvere la situazione coincide con quello che rimane al vice procuratore per dimostrare la propria innocenza. Sempre che di innocenza si possa parlare ad un certo punto.
Il legal drama va bene per distruggere le certezze
Quella ideata da David E. Kelley è una miniserie che si mette sotto sin da subito con la sua opera di demolizione nei confronti dell’immaginario che mostra allo spettatore. Lo fa ovviamente partendo con il suo protagonista, che da splendido padre di famiglia e classico protagonista da film americano difensore della legge passa a uomo deludente standard e tendente al tenebroso ambiguo. Un compito affidato a Jake Gyllenhaal (Road House), il quale non è invece proprio all’altezza della situazione, regalando poche sfumature al suo personaggio pur trovandosi all’interno di una storia che da sola basterebbe a portarle. Forse serviva Ben Affleck.
Ciò che è interessante della miniserie, in un contesto già visto e a volte strabusato in questo tipo di legal drama statunitense (ovvero quello che rivelando il passato si cambia il presente), è questa onda nera che si propaga dal protagonista e investe tutti, così da togliere ogni punto di riferimento possibile a chi guarda per poi riuscire a costruire una storia senza avere limiti altrimenti ingabbianti. Gli unici che rimangono sono quelli che esigono i tempi correnti, che non possono giustamente assecondare delle semplificazione del libro, soprattutto in relazione al personaggio di Barbara, portato (lei sì) benissimo in scena da Ruth Negga (Loving).
Presunto Innocente, con la sua solita scrittura solida, accordata e che soprattutto va sempre verso una direzione precisa, ha l’ambizione di esplorare le stanze più oscure e profonde della moralità umana, scavando tra ciò che si annida tra i desideri, le paure, le ansie e i dolori di tutti noi. Ovviamente metafora di quelli della nostra società. In sostanza, ci dice che nessuno è totalmente vittima o carnefice, nessuno è esente veramente da colpe e che “realtà” e “menzogna” sono due parole il cui senso si rimpicciolisce man mano che ci si avvicina per guardarle. L’unica cosa che si può veramente fare è, appunto, presumere, dato che non si può affermare definitivamente nulla né in un senso né nell’altro.