Top Gun: Maverick parte da una posizione di grande vantaggio: nel deserto di idee, narrative e di rappresentazione, in cui versa il cinema hollywoodiano, sempre più alla ricerca di sé in un post pandemia dove sequel, reboot e remix scadenti sembrano l’unico rimedio alla crisi del box office, una produzione action di alto livello (150 milioni), ben fatta, con un buon cast e i giusti elementi di attrazione, risalta come un fiore nel deserto e risveglia emozioni credute perse in un pubblico composto prevalentemente da millennial (un esempio analogo? The Batman di Matt Reeves). Il seguito di uno dei cult movie più amati degli anni Ottanta fa così immediatamente breccia nei cuori dei nostalgici del cinema di Tony Scott e Jerry Bruckheimer e diventa su Rotten Tomatoes, con una media dei giudizi della critica superiore al 9,5, “Il più emozionante blockbuster visto da diversi anni a questa parte”.
Ed è piuttosto difficile smentire quello che è un dato di fatto: questo sequel di Top Gun, nonostante arrivi con almeno un decennio di ritardo rispetto a quanto previsto e sia orfano di uno dei registi di action movie più iconico degli anni Novanta e Duemila (Scott è scomparso nel 2012), è un film perfettamente confezionato, capace di mettere tutti d’accordo. E qui il suo primo segreto e allo stesso tempo peccato originale: l’essere insopportabilmente “misurato”. Top Gun: Maverick prende intere scene dell’originale e le copia in modo identico ma non evidente, cambiando qualche dettaglio, risistemando gli elementi come in un salone a cui si vuole dare una svecchiata. Tutto è uguale pur essendo diverso. La stragrande maggior parte delle idee e delle situazioni, dunque, arrivano dal passato, come un “usato sicuro” (cosa che sarà immediatamente evidente a chi volesse rinfrescarsi la memoria rivedendo il film del 1986) dalla duplice finalità: suscitare immediatamente un effetto nostalgia in chi ha amato il primo film e non correre rischi muovendosi nel solco di una formula che aveva ben funzionato 36 anni fa.
Il considerevole lasso di tempo intercorso tra i due film ha comunque obbligato i tre sceneggiatori (Ehren Kruger, Christopher McQuarrie, Eric Warren Singer) a cambiare il motore della storia. E in questo risiede il maggiore merito del film, che ha ripescato il personaggio interpretato da Tom Cruise ed è riuscito a contestualizzarlo in modo non scontato all’interno dello scenario contemporaneo. Maverick è un dinosauro del passato, l’eccellente scarto di un’epoca agli sgoccioli, il paria delle gerarchie, e allo stesso tempo il fuoriclasse caparbio come un mulo, l’eroe dimenticato ossessionato dagli spettri del passato e alla ricerca di una propria identità; Maverick è il trionfo incarnato dello spirito pioneristico americano, della vittoria dei fatti sulle parole, del mito del genio ribelle e inarrestabile che ha prodotto personaggi incredibili come Walt Disney, Steve Jobs ed Elon Musk. Un personaggio tanto sfaccettato, tragico e divertente allo stesso tempo, così rappresentativo di valori presenti e passati, è decisamente raro in film d’azione come questo.
Un unicum forse irripetibile anche in ragione del fatto che l’intera produzione incarna realmente l’incrollabile determinazione del suo protagonista: non solo il voler fare un sequel a distanza di così tanti anni, superando una pandemia globale e con la speranza di riportare al cinema un pubblico abituatosi allo streaming, ma soprattutto l’ambizione di tentare qualcosa che cinematograficamente non ha eguali nella storia del cinema. Quest’ambizione ha un nome e un cognome: Tom Cruise. Non solo l’attore, quasi sessantenne, è tornato a vestire i panni di un personaggio di trent’anni fa risultando assolutamente credibile (nel fisico e nello spirito), ma ha spinto la produzione a girare le scene aeree senza CGI: sia lui che il resto del cast si sono sottoposti a mesi di addestramento per salire a bordo di veri caccia dell’aeronautica militare, dove erano state installate diverse camere IMAX gestite direttamente dagli attori. Che Cruise ami girare senza controfigure è cosa ormai nota, ma coinvolgere l’intera produzione a spingere l’asticella così in alto è ben altra cosa. Inoltre, pare che l’attore abbia imposto la presenza di Val Kilmer (Tom “Iceman” Kazinsky), che gioca nel film un ruolo affatto trascurabile ed è, in effetti, protagonista di una delle scene più toccanti di questo sequel.
Tom Cruise (anche produttore) si è quindi approcciato a questo Top Gun: Maverick come alla sua ennesima “mission impossible” da portare a casa; lo spettatore lo intuisce già dalla prima “sfida”, il volo a bordo del velivolo Dark Star, che con una sorprendente “manovra” di plot mette in testa e non in coda al film una scena superba che lascia assolutamente attoniti e spinge a chiedersi: “Se iniziamo così, cosa verrà dopo?”. A premesse così alte non è corrisposto uno sviluppo altrettanto entusiasmante, seppur godibilissimo.
Sulle fondamenta di nostalgia e déjà-vu di cui si diceva prima, gli sceneggiatori hanno eretto una storia da un lato fragilissima e dall’altro particolarmente riuscita: se la missione in cui sono coinvolti i personaggi fa eco ai tanti, sconclusionati e poco plausibili plot action, strizzando l’occhio anche a Star Wars, il rapporto di Maverick con i suoi allievi è molto più interessante e mette in scena in modo intelligente e senza retorica lo spirito di gruppo e l’avvicendamento generazionale, che non è necessariamente quello tra padre e figlio ma anche tra maestro e discepolo.
Ne consegue che i momenti meno concitati del film sono quelli più realistici mentre le scene d’azione, per quanto tecnicamente strepitose, risultano poco efficaci, mancando un contesto credibile e un nemico reale (difetto presente anche nel film originale). Gli ottimi elementi che contraddistinguono Top Gun: Maverick da film simili finiscono dunque per sbiadire un po’ dinanzi alla paura di fare qualcosa che si distacchi troppo dall’originale, che tradisca il pubblico di una volta, che deluda lo spettatore moderno. Un pizzico di coraggio in più l’avrebbe veramente reso il miglior action movie del decennio anziché un clone con coscienza parziale di sé, che convince ma non troppo, che emoziona ma fino a un certo punto.
Però, c’è un però, se si spengono le sinapsi e ci si lascia “cullare” dalle note di Hans Zimmer (senza dimenticare il tema principale e il brano scritto per l’occasione da Lady Gaga), lo spettacolo è totale. E niente si può dire al cast (Jon Hamm, Glen Powell e Jennifer Connelly in cima alla lista), al regista (Joseph Kosinski, che aveva già lavorato con Cruise nel convincente Oblivion) e al direttore della fotografia (il premio Oscar Claudio Miranda), se non di aver confezionato un ruggente action movie che, questa la grande scommessa ancora da vincere, dovrà intercettare non solo gli irriducibili nostalgici degli anni Ottanta ma anche un pubblico giovane che ignora chi sia Peter “Maverick” Mitchell.