State a casa è il film che segna il ritorno di Roan Johnson dietro la macchina da presa e direttamente sul grande schermo: anni dopo il suo ultimo film (Piuma, 2016) e la fortunata esperienza televisiva targata Sky de I delitti del BarLume, il regista anglo-italiano torna a raccontare una storia di giovani coinquilini – com’era già successo in Fino a qui tutto bene – alle prese con le difficoltà della vita, ma utilizzando come sfondo la surreale situazione storica vissuta globalmente con l’avvento dell’epidemia da Covid-19. Il film, con protagonisti Dario Aita, Giordana Faggiano, Lorenzo Frediani, Martina Sammarco e Tommaso Ragno (visto recentemente ne Il cattivo poeta e Security) sarà disponibile nelle sale dal 1 luglio.
Il mondo là fuori è bloccato da una pandemia, e in lockdown un appartamento a Roma diventa lo stesso di Milano, Napoli, Parigi e New York. Quattro ragazzi sotto i trent’anni condividono proprio quell’appartamento da tempo e, fermati dal contagio, si trovano ad affrontare ombre più grandi che minacciano la loro situazione. L’occasione per fare dei soldi facili a scapito del loro equivoco padrone di casa (Ragno) porterà il film a un crescendo di tensione e delirio, e le scelte quanto le azioni azzardate dei ragazzi diventeranno sempre più ambigue mentre le conseguenze sconvolgeranno i loro sogni e le speranze, le paure e gli amori che vivono trascinandoli in una girandola grottesca.
State a casa è una commedia grottesca intrisa di umorismo nero, lucida e folle nel suo oscuro scrutare nel buco nero dei pensieri inconfessabili e dei desideri più ambigui che si annidano nell’animo umano; l’unico modo per raccontare il lockdown vissuto era attraverso la lente dei generi, che ha focalizzato la sua attenzione sulla pandemia fino a deformarla, per cercare di esorcizzare le paure provate sostituendole con altre. Il film di Johnson è, al momento, uno dei pochi che si è dimostrato capace di saper reinterpretare i fatti, senza limitarsi alla mera cronaca di un evento storico vissuto e subito da spettatori passivi sulla scena della Storia. Con un “black witz” irresistibile, il regista ha esorcizzato (appunto) le incertezze e le paure provate durante il primo, imprevedibile, lockdown sostituendole con altre ben più complesse e pericolose.
Il fascino del film si annida nella sua capacità di spiazzare e sorprendere, avvalendosi del sapiente uso dei canoni di vari generi – commedia, thriller, orrore, suspense, onirico-surreale etc. – per costruire una narrazione complessa e stratificata, che trascina lo spettatore in un progressivo maelstrom sempre più profondo e distorto che si affaccia sull’oscurità dell’insondabile umano, svelando l’essenza più ferina delle persone in una situazione anomala e atipica pronta a coglierli di sorpresa, stordendoli. La naturalezza delle relazioni messe in scena dai protagonisti è capace di creare un’illusione di verità ed estremo realismo, garantito anche dalla (onni)presenza di un piano sequenza indagatore che scruta nelle vite del gruppo, nelle pieghe emotive e private dei ragazzi che incarnano alla perfezione il prototipo dei coinquilini che tutti hanno avuto/conosciuto almeno una volta nella vita.
State a casa è, anche nel titolo, un invito provocatorio e sibillino, nel quale echeggia tanto la raccomandazione che ha scandito il tempo fisico durante il primo lockdown, quanto una strizzata d’occhio da parte del black humour che invita a spiare nelle vite degli altri, ad attraversare un viaggio fuori di testa – e fuori controllo – multi-strato e multi-significato, dove non tutto è come sembra e ogni azione o scelta comporta una lenta discesa in un inferno onirico, disturbante e provocante: si inizia la visione ridendo, per poi progressivamente sostituire il sentimento spensierato con una sottile angoscia, un latente e sinistro sentimento che innesca riflessioni e tensioni. Fino a che punto l’essere umano può spingersi, se calato in una situazione estrema e inedita? Davanti alle tentazioni, sappiamo davvero resistere? E queste riflessioni macroscopiche sulla vita e sul comportamento etico trovano una collocazione ideale grazie al lockdown, uno stallo che ha trasformato le case – e le esistenze – in prigioni da incubo, complice il passare dei giorni.
Con State a casa Roan Johnson conferma il suo talento nel raccontare tanto la vita spensierata di un’intera generazione – quella dei Millennials, immortalata sempre al crocevia tra le difficoltà della crescita e un’eterna adolescenza universitaria – quanto la contaminazione dei generi, che si insidiano nelle crepe del racconto proprio come pericolosi virus, capaci di trasfigurare la realtà deformandone i connotati come in un perturbante freudiano. Forse il continuo gioco di rimandi tra i generi può disorientare nel corso della visione, creando aspettative – e immaginari – difficili da mantenere, ma senza dubbio il film di Johnson incarna uno sguardo atipico sulla pandemia, raro nella sua capacità di raccontare il reale attraverso l’occhio della macchina da presa.