venerdì, Luglio 18, 2025
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Queer, recensione del film di Luca Guadagnino con Daniel Craig

Presentato in Concorso a Venezia 81, Queer di Luca Guadagnino è tratto dall'omonimo romanzo di William S. Burroughs. Dal 17 aprile al cinema con Lucky Red.

Guardare Queer per capire il cinema di Luca Guadagnino. L’attesissimo adattamento dal romanzo di William S. Burroughs, a lungo inseguito dal regista italiano, è un’epifania fatta a scatole cinesi. Nel primo contenitore c’è la storia del romanzo, schiacciata su Lee (Daniel Craig) e sul suo amante (Drew Starkey). Il primo è un uomo attratto da squallidi locali, dal piacere e dalla ricerca ossessiva dell’estremo. Tra lui e i suoi ragazzi si instaura una dinamica romantica, ma ancora più di sesso, seduzione e scoperta, che apre alla seconda scatola. Quella di Burroughs stesso che nel romanzo usa Lee alla stregua di un alter-ego.

I piani del racconto si mescolano tra soggettività e oggettività, il narratore è inattendibile sui fatti, lo è molto di più nelle emozioni. Tutto il film è una sorta di visione allucinata dove contano più le sensazioni che la coerenza dei fatti narrati. Infine Queer presenta l’ultimo strato, il più importante. In Lee – e quindi in Burroughs – c’è tutto Guadagnino: il suo sguardo affamato di corpi, le sue ansie esistenziali e la sua danza con le pulsioni. La trama è ridotta all’osso: siamo dentro il ricordo di un uomo che muore e ripercorre in tre atti (più epilogo) la sua ricerca di una chimera: lo Yage. Una droga in grado di attivare la telepatia nelle persone.

Città del Messico negli anni ’40 è uno spazio sicuro per gli espatriati americani come Lee. Costui si dedica a droghe di ogni tipo e, soprattutto, a sedurre i ragazzi “come lui”. «Sei queer?», chiede alle persone su cui ha posto lo sguardo. È una domanda un po’ inquieta, timorosa, come una parola d’ordine per accedere a un nuovo livello di conoscenza. Per la prima volta nel cinema di Guadagnino entra il timore dell’essere omosessuali.

La sottile inquietudine di personaggi in fuga

Se in Chiamami col tuo nome il regista raccontava una società italiana senza omofobia, adattando Burroughs si ottiene una sottile inquietudine nei suoi personaggi in fuga. Si nascondono dall’intolleranza, anche se non lo dicono mai esplicitamente, creando una micro società nascosta tra i bar e le strade. Sapersi riconoscere è fondamentale. Arriva qui la grandezza di Queer, per come riesce a tirare un filo conduttore con il resto del cinema di Guadagnino. In particolare Bones and All.

Lì i cannibali si fiutavano l’un l’altro. Possedevano un’innata capacità di riconoscersi. In Queer invece questa capacità è ricercata da Lee in lungo e in largo per il mondo. Viaggia con la pistola, per proteggersi da un pericolo presente, ma che non arriva mai in scena. Arriva nella giungla, per provare la droga studiata a suo dire da americani e russi per provare a portare oltre le capacità umane. Ad arrivare cioè al contatto tra persone tramite il pensiero.

La ricerca del piacere come guida della vita

Un viaggio allucinato dove Guadagnino non manca di provare le sue soluzioni di messa in scena più simboliche. Ci sono lunghi carrelli con canzoni che proseguono per quasi l’intera durata (contro i tagli bruschi di Challengers). Alcuni momenti sono surreali e quasi da body horror. Abbondano le sovrimpressioni.

Queste ultime sono un effetto speciale molto semplice – si riprende due volte la stessa scena e la si compone in trasparenza – ma che rendono per immagini l’effetto del desiderio di telepatia. Lee raggiunge le persone a livello subatomico, quasi un contatto di anime, allungando mani che appartengono solo al suo pensiero. Lo sguardo pudico del regista, che guardava dall’altra parte fuori dalla finestra durante le scene di passione del già citato Chiamami col tuo nome o ai fiori dentro Io sono l’amore, cede per la prima volta alla curiosità voyeuristica.

La cinepresa si gira anche qui verso il paesaggio lasciando la privacy ai suoi personaggi, salvo poi ritornare rapidamente a vedere, senza filtri, ciò che succede tra le lenzuola. Questa gratuità ha senso per ciò che racconta il film: la ricerca del piacere come guida della vita e la preponderanza dello sguardo su tutto. Lee guarda le sue prede, le seduce, le possiede. Tutto parte dagli occhi.

Queer. Credits Yannis Drakoulidis

Queer non vuole piacere ad ogni costo

Il protagonista di Queer è, fondamentalmente, un personaggio spregevole. L’andamento del film è una discesa nel surreale della sua psiche. Ostile al grande pubblico, Queer – presentato in Concorso all’81esima Mostra del Cinema di Venezia – non chiede tanto di essere compreso quanto semplicemente di essere vissuto.

Ci sono alcune imperfezioni tecniche che pesano un po’: i fondali sono in qualche inquadratura visibilmente posticci. Il ritmo non è rigoroso, si allunga molto nella prima parte mentre entrando nella seconda sono evidenti i tagli rispetto al primo cut di tre ore. Il film è però come il suo protagonista: non è ossessionato dal piacere a tutti, ma vuole raggiungere il suo pubblico. Quello che gli è più affine. Chi è disposto ad accettarlo in tutte le sue stranezze e nelle durezze.

Guadagnino trova alcune immagini che non si dimenticano, provoca più di quanto non abbia mai fatto. Porta Daniel Craig alla sua migliore interpretazione e lancia la stella che è Drew Starkey (ulteriore conferma della grande abilità del team del regista rispetto al casting). Lontano dalla perfezione, Queer è però un film che sembra chiudere un periodo della sua filmografia riassumendone temi e visioni. Un cinema totalmente personale che si specchia nel suo stesso autore.

Guarda il trailer ufficiale di Queer

GIUDIZIO COMPLESSIVO

Queer è il Guadagnino più coraggioso che non prova a piacere a tutti, ma cerca invece di parlare di sé attraverso il suo protagonista. Pur con qualche imperfezione, va ammirato il coraggio di voler raggiungere un pubblico specifico e la capacità di trovare immagini d’impatto.

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