Si è scritto, disegnato, “ricamato” – e immaginato – molto sul concetto di Multiverso: un’idea pressoché sconosciuta alle masse prima di essere introdotto, forzatamente, nella pop culture dell’immaginario collettivo edificato dai Marvel Studios, che hanno fatto conoscere ai neofiti le potenzialità narrative infinite di molteplici universi dalle linee temporali spezzate, tra eventi Nexus e innumerevoli versioni dei supereroi più amati dal pubblico (come ci hanno mostrato Doctor Strange nel Multiverso della Follia, ma anche le serie Loki e WandaVision). E c’è sempre lo zampino dei fratelli Russo, veri e propri dei ex-machina del MCU, dietro quello che viene considerato, a tutti gli effetti, come il film definitivo sul tema del Multiverso: Everything Everywhere All at Once, diretto da Daniel Kwan e Daniel Scheinert (ribattezzati più semplicemente come i Daniels), si configura come un vero e proprio manifesto sulla comprensione, l’uso e l’abuso di questo concetto nelle cultura popolare e nella quotidianità.
Il film, che vede protagonisti Michelle Yeoh, Stephanie Hsu, Ke Huy Quan, Jenny Slate e Jamie Lee Curtis, pronto a debuttare nelle sale dal prossimo 6 ottobre, pone al centro delle vicende narrate il personaggio di Evelyn Wang (Yeoh), una donna di origini cinesi che gestisce una piccola attività – una lavanderia a gettoni – insieme al marito Waymond (Quan), un uomo mite con il quale sono ormai giunti ad un capolinea nel loro rapporto. A complicare le vicende familiari della donna ci pensano anche la figlia adolescente Joy (Hsu) e l’anziano padre (Hong) appena arrivato dalla Cina. Ma durante un controllo fiscale condotto dalla pignola ispettrice Deirdre (Lee Curtis), la vita di Evelyn cambia radicalmente: la donna assiste ad una frattura nel Multiverso che la trascinerà in incredibili avventure tra varie realtà parallele minacciate da un unico, pericoloso, nemico che vuole distruggere l’equilibrio che lega i vari universi (e la sua piccola famiglia).
Everything Everywhere All at Once è un’esperienza audiovisiva vertiginosa e iperbolica, stratificata e complessa: come raramente si vede sullo schermo, il piacere (retinico) per il puro intrattenimento incontra la complessità di una struttura ambiziosa e frammentaria, nella quale ogni elemento si interseca perfettamente – e in precario equilibrio – simulando la dinamica della torre del gioco Jenga, nel quale è necessario sistemare ogni tassello al posto giusto per scalarla e così toccare le vette del cielo. Il concetto di “multi”, della molteplicità corale – delle storie, delle lingue, dei generi, degli universi paralleli – demarca l’essenza stessa del progetto, scolpendone i confini definitivi: solo aprendo la mente alle indefinite/infinite possibilità (e potenzialità) si può comprendere il significato più intrinseco e profondo del film.
Un buffet all you can eat cinematografico
Ad un primo sguardo, Everything Everywhere All at Once cerca di sfruttare il potenziale narrativo del Multiverso, cavalcando l’onda della moda e delle tendenze contemporanee: il nostro universo è solo una delle tante versioni plausibili che si muovono lungo lo spazio e il tempo, e in ognuna c’è una nostra versione alle prese con esperienze completamente diverse, al limite dell’immaginabile. Ma per sviluppare questo singolare storytelling in un modo appagante e atipico, lontano da stereotipi e standard pop, i Daniels scelgono di cavalcare l’onda lunga e selvaggia dei generi, sperimentando perfino innumerevoli sguardi – d’autore – della macchina da presa. Ogni volta che un elemento atipico fa irruzione nella stabilità immutabile dell’esistenza tessuta da Evelyn, l’aspect ratio del film cambia, così come il genere: la comedy incontra il wuxia e il drama fino ad affacciarsi nello sci-fi post-apocalittico, e ogni singolarità costituisce il frammento autonomo di un corpo unico orchestrato con grande maestria dai Daniels.
Molti generi garantiscono un unico effetto: vedere Everything Everywhere All at Once è come presentarsi ad un buffet all you can eat cinematografico, nel quale tante piccole opere di senso compiuto costituiscono – proprio come le tessere di un mosaico – un’unica composizione finale, caratterizzata dai colori lisergici della psichedelia frenetica e incalzante sancita dal montaggio e dalle scelte visive, quanto da quelle estetiche, compiute. Una decisione formale forte e dal marcato accento autoriale, che lascia spazio ad una varietà di contenuti più profondi, pronti ad emergere progressivamente man mano che il “velo di Maya” della percezione viene squarciato dall’incredulità sospesa dello spettatore attonito. Perché Everything Everywhere All at Once è soprattutto una superficie liquida e mutevole nella quale specchiarsi, una lente deformante nella quale ammirare il nostro stesso riflesso, contemplando la galleria dei dubbi e delle umane idiosincrasie.
Attraverso il gioco del generi e delle teorie sci-fi, i Daniels mettono in scena rituali sociali e rapporti familiari archetipici e ancora tutti da scoprire; nel film si parla di famiglia, di rapporti tra genitori e figli (in particolare con le madri, eterno cruccio edipico), di tradizioni che contrastano con la modernità incalzante; ma anche di comunità che cercano di integrarsi trovando un loro posto nel mondo, di “talenti sprecati” e personalità bloccate che cercano loro stesse (magari nei posti più impensati). Infine, Everything Everywhere All at Once è soprattutto un viaggio nel femminino odierno sfaccettato e frammentato, perché così è in fondo la personalità femminile: un Multiverso complesso e delicato nel quale le parti si relazionano col tutto, in una continua ricerca di un precario equilibrio – tra pubblico e privato – da sempre agognata e desiderata.
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