Esiste ancora, il sogno americano? Qualcuno potrebbe chiedersi: è davvero mai esistito? Forse quelli della determinazione, dell’iniziativa, del duro lavoro come viatici alla possibilità di una realizzazione personale sono sempre stati solo un mito. Un miraggio che disseta nel deserto, un palliativo all’impoverimento del quotidiano.
Non tutti nascono nello stesso posto, non tutti hanno i giusti strumenti. Ma oggi, in un contesto in cui l’alto e il basso sono distanziati da un abisso economico e sociale siderale, non colmabile, cos’è il sogno americano? La ribalta effimera e fugace di un profilo Instagram con qualche migliaio di follower? Una seconda casa al mare o in montagna? O magari una vincita alla lotteria, come quella che fa piovere 190 mila dollari sopra la testa di una giovane donna della provincia texana? Una vincita che ha il sapore di un boccone avvelenato, come a dire: visto?
Anche nell’angolo più remoto della terra dei sogni, a tutti è concessa una possibilità. Ma questa donna texana, la protagonista di To Leslie, non ha appunto gli strumenti per governare un sogno a cui il suo Paese non l’ha mai preparata. Le si illuminano gli occhi quando vede arrivare una pinta di birra. Lo sguardo di Andrea Riseborough si fa fessura ebbra, pieno della follia dell’alcolizzato. Sperpera tutto. E lo diciamo subito: la performance dell’attrice è la cosa migliore del film.
Una sorprendente cavalcata verso l’Oscar
Non è un caso, ma è comunque sorprendente, la cavalcata che l’ha portata a finire nella cinquina delle candidate alla miglior attrice alla cerimonia degli Oscar 2023. Una promozione partita dal basso, incentivata addirittura da sue illustri colleghe come Amy Adams e Kate Winslet. Supporto senza il quale il film a bassissimo budget presentato al South by Southwest e che segna l’esordio a una regia cinematografica di Michael Morris non avrebbe potuto permettersi di spingere la propria protagonista.
To Leslie gira interamente attorno a lei. La raccoglie quando è un derelitto di umanità, consumato ed emaciato nel corpo e nello spirito. Ne fa appunto architrave di una riflessione che all’inizio pare voglia demolire l’assunto del “chiunque può farcela”. No, la fortuna non è niente senza la determinazione, l’iniziativa e il duro lavoro. Ma se quella fortuna è una fortuna di Stato, una distrazione volta ad alimentare l’effimera speranza mentre tutto attorno il mondo crolla, allora la questione cambia. Perché in questa provincia dove il sogno è inoculato in maniera così arbitraria non pare esserci poi molto all’orizzonte.
Lo Stato è un affare lontano, il supporto sanitario è un affare lontano, i centri di recupero per gli alcolisti sono un affare lontano. Ci si aiuta in famiglia o tra conoscenti. Questa donna prima prova ad aiutarla il figlio (Owen Teague), poi degli amici riluttanti (Stephen Root e Allison Janney). I risultati sono scarsi e allora di fronte all’asprezza e alla malattia di Leslie a compensare arriva un altro caso. L’accoglie a lavorare in un motel Sweeney (Marc Maron), personificazione dell’anima buona e benevola – a rischio di farsi fessa – di un Paese che non si abbandona alla bruttura.
L’inganno di un sogno troppo grande
Ma qui To Leslie – presentato alla 21esima edizione di Alice nella Città in occasione della Festa del Cinema di Roma – si fa a dire il vero piuttosto ingenuo, si lascia andare alla costruzione facile e piuttosto basilare di un rapporto sopra il quale edificare la possibilità di un futuro. Sweeney tende una mano, Leslie prima è restia e poi la afferra. Non c’è molto altro da aggiungere alla dinamica. È lo sfogo meno interessante dell’opera scritta da Ryan Binaco, che quasi sceglie di assestarsi sulle coordinate tipiche della rivalsa, fatta di ricadute e di riprese, in fondo alle quali attende il premio. Insomma, sul lungo corso il malessere di una realtà quotidiana depredata dall’inganno di un sogno troppo grande è un qualcosa che resta ad aleggiare sotto tante righe.
Il polo più incisivo al quale il film si aggrappa resta ancora una volta il corpo esile di Leslie, che Riseborough scaglia in danze scomposte e malinconiche nei bar in cui ingurgita alcol e attrae sguardi ostili, predatori. Su di lei To Leslie si richiude, forse si adagia addirittura. L’attrice ripaga con una prova davvero magnetica e questo trascina in avanti il racconto lungo le sue due ore, probabilmente troppe.
La sensazione restituita è comunque che il film non creda, o magari non colga, fino in fondo alcune delle sue intuizioni di partenza. C’è tanto sullo sfondo e nel fuoricampo che rimane inesplorato, che avrebbe potuto fare eco collettivo alla disgrazia umana del singolo. Il lavoro di Morris sceglie di prendere un altro sentiero, più sicuro, più battuto, sfiorando solo di striscio la storia giusta.