“Il tuo essere diversa è il tuo potere”: queste parole, rivolte da una mamma alla giovane figlia adolescente, rappresentano il fulcro de Il rito delle streghe (The Craft: Legacy), disponibile su Rakuten TV a partire al prossimo 29 gennaio. Il film, scritto e diretto dalla giovane Zoe Lister-Jones (Band-Aid), è l’attesissimo reboot di Giovani streghe (The Craft). Si tratta di un ingombrante predecessore: uscito nelle sale nell’ormai lontano 1996 e considerato un cult del genere horror/fantastico, Giovani Streghe vanta ancora oggi una nutrita schiera di fan e ammiratori.
I due film prendono le mosse dalla medesima situazione: un’adolescente timida e insicura si trasferisce in una nuova città e quindi in una nuova scuola. Mentre è impegnata a fronteggiare i bulli di turno (l’ambientazione è quella stereotipata cui ci hanno abituato molti teen movies statunitensi: l’high school americana, dove se non sei giocatore di football o cheerleader vieni automaticamente bollato come loser), la giovane ragazza scopre non soltanto di essere dotata di poteri sovrannaturali, ma di essere addirittura una strega in carne ed ossa. Questa mistica e sconvolgente scoperta della vera sé è incoraggiata da un gruppo di tre amiche, streghe a loro volta.
Il rito delle streghe, tuttavia, presenta alcune lievi (ma, si vedrà poi, assolutamente rilevanti) differenze rispetto al film originario: la protagonista, che qui si chiama Lily (Cailee Spaney), non appartiene più ad un contesto familiare “tradizionale”, ma è figlia di una madre single (Michelle Monaghan). Quest’ultima decide di cambiare città per intraprendere una convivenza con il nuovo compagno (David Duchovny) e i tre figli di lui. L’occupazione del patrigno non è chiarissima: sembrerebbe una sorta di life coach, autore di libri di successo destinati a uomini di successo, propugnatore di ideali degni dell’età della pietra, quali machismo, ordine e forza bruta (ad un certo punto viene spontaneo chiedersi di che cosa, esattamente, si fosse innamorata la giovane e sprovveduta madre della protagonista).
Nel rivelare la propria discutibile natura, il personaggio interpretato da David Duchovny rivela anche lo scarto tra i due film. Le quattro streghe anni ’90 dovevano vedersela, prima di tutto, con i propri demoni: il nemico era solo apparentemente “esterno”. Il film diretto da Andrew Fleming, infatti, partiva come un classico teen movie (pur con i tratti fantasy promessi sin dal titolo): i toni inizialmente distesi e il ricorso a numerosi stereotipi del genere si ribaltavano inaspettatamente nella seconda metà della pellicola, che andava ad assumere delle vere e proprie venature horror. Lo spettatore di Giovani streghe tifa per le protagoniste, gode nella rivalsa che le quattro orchestrano ai danni di chi le ha sempre sottovalutate. La magia è un pretesto, metafora delle risorse segrete che, sopite per lungo tempo, possono esplodere inaspettatamente in tutta la loro forza vitale. Ma non è detto che tali risorse siano “buone”, e sta qui il lato sorprendente del film.
Nella parte finale del racconto, dopo essersi reso conto di aver tifato tutto il tempo per una congrega di pazze manipolatrici, chi guarda si sente quasi in colpa; lo spettatore prosegue la visione con la coda tra le gambe, sentendosi truffato da quello che sembrava un filmetto per ragazzi, infarcito di cliché e prevedibili colpi di scena. Le implicazioni che emergono nella parte finale del film, in realtà, non sono affatto originali: la vera forza d’animo non sta nel vendicarsi ciecamente dei soprusi subiti, atto che potrebbe facilmente rivelarsi come un’arma a doppio taglio. L’originalità dell’operazione sta piuttosto nel modo repentino, violento e inaspettato (che valse al film un divieto di visione ai minori di 18 anni) in cui tale morale ci viene presentata.
Il fatto che questi sinistri risvolti siano totalmente assenti dal film diretto dalla Lister-Jones stupisce per due motivi. Intanto, e vale la pena sottolinearlo, Il rito delle streghe è prodotto dalla Blumhouse Productions (Paranormal Activity, Scappa – Get Out), fatto che già di per sé dovrebbe rappresentare una garanzia. Nel film vi è poco e nulla di orrorifico; i cosiddetti jump scares sono prevedibili e al limite del ridicolo (specialmente nella parte finale, dove il film cade goffamente nel grottesco). In certi momenti è difficile non scoppiare a ridere. Una risata amara, di chi si trova di fronte ad effetti speciali tanto costosi quanto involontariamente comici.
In secondo luogo, Il rito delle streghe è profondamente interconnesso con il suo predecessore. Non si tratta di un semplice remake, come rivelerà il twist finale (totalmente insensato per chi non ha visto il primo film). Il materiale originale, pur essendo confezionato benissimo da un punto di vista visivo e narrativo (almeno nella prima parte del film), è privato della propria forza anarchica e quindi svuotato totalmente di senso.
La regista esplicita alcuni elementi che nel primo film erano soltanto suggeriti, come la connessione tra scoperta della magia e pubertà, l’esaltazione della forza femminile, la ribellione ad una società a stampo prettamente maschilista. Il materiale iniziale viene attualizzato, rendendo la visione godibile e scorrevole per un pubblico giovane. Il rischio principale, tuttavia, è quello di banalizzare certe tematiche importanti (una tra tutte, il coming out di uno dei personaggi), appiattendo la narrazione su scelte di comodo. Sembra, insomma, che si siano voluti affrontare certi temi soltanto perché “andava fatto”, ma che poi non si abbia avuto voglia o tempo di approfondirli a dovere.
Si è scelto, poi, di modificare totalmente i rapporti di forza all’interno del gruppo di amiche. Se in Giovani streghe veniva messo in dubbio anche il concetto di amicizia, qui ci troviamo in una sorta di Sex and the City in salsa magica e puberale. Di per sé, non ci sarebbe nulla di male in questo. La sensazione, tuttavia, è che certe scelte siano state fatte non tanto per concedere al film di intraprendere un percorso narrativo autonomo e inedito, quanto per soddisfare le (soltanto presunte) richieste di un pubblico giovane, propenso a certe dinamiche piuttosto che ad altre. Questo “girl power” a tutti i costi ha degli inevitabili effetti sulla presa di coscienza finale, assolutamente politically correct. Risultato prevedibile, visto che qui i nemici da combattere non sono più i fantasmi delle protagoniste, ma la superficialità e il maschilismo imperanti nella società descritta all’interno del film.
Il rito delle streghe è un film che si sforza in tutti i modi di trattare con leggerezza temi importanti, con il non troppo celato intento di “educare” le ragazze di oggi: dovete essere forti, anticonformiste, combattere le disuguaglianze, far sentire la vostra voce. Il problema è che questo spasmodico tentativo di rifuggire dai luoghi comuni si vede, e anche troppo, tanto da rendere superficiale un film che vorrebbe essere tutto tranne che superficiale. Più che un’occasione persa, Il rito delle streghe si configura così come un fastidioso e lezioso esercizio di stile, ben lontano dallo spirito sovversivo che aveva contraddistinto il suo interessante predecessore.