Nella primavera del 1943, il fisico italiano Enrico Fermi si recò per la prima volta a Los Alamos, negli Stati Uniti, per contribuire al progetto Manhattan. La storia della creazione della bomba atomica, raccontata anche dal kolossal Oppenheimer di Christopher Nolan, è assai celebre. Meno famoso è invece un episodio di cui fu protagonista proprio Fermi durante il suo periodo nel New Mexico. Si racconta che una sera a cena Fermi e alcuni colleghi scienziati iniziarono un’accesa discussione sulla possibile esistenza di forme di vita extraterrestri intelligenti. Di fronte all’insistenza di taluni interlocutori, convinti della plausibilità della loro ipotesi, Fermi – poco incline a entusiasmi – pose una semplice (per non dire banale) domanda: “Se l’universo e la nostra galassia pullulano di civiltà sviluppate, dove sono tutti quanti?”. L’interrogativo è passato alla storia con il nome di “Paradosso di Fermi”, ed è ancora oggi uno dei capisaldi dei detrattori della teoria secondo cui gli alieni esistono.
Detrattori a cui difficilmente riusciamo a dare torto. Dopo tutto, a distanza di più di ottant’anni, di tracce di vita extraterrestre non ne abbiamo trovato neppure l’ombra. Nonostante questo, gran parte di noi è affascinata (e magari al contempo inorridita) dal possibile contatto tra l’umanità e un’altra civiltà spaziale. Un fascino oltretutto nutrito da un immaginario che iniziò a imporsi già alla fine del XIX secolo grazie al romanzo di H.G. Wells La guerra dei mondi e che negli anni successivi, ancora grazie alla letteratura ma anche (soprattutto) ad altre forme di comunicazione e intrattenimento, iniziò a radicarsi a livello globale. Come dimenticare, ad esempio, il celebre programma radiofonico di Orson Welles del 1935 ispirato al romanzo di Wells che propose agli ignari radioascoltatori una finta radiocronaca in diretta di uno sbarco alieno sul nostro pianeta? Un exploit che costò a Welles un processo per aver generato allarmismi diffusi nel paese (si parlò persino di persone che, prese dal panico, tentarono il suicidio), ma che di fatto gli aprì le porte di Hollywood.
Fu proprio Hollywood ad amplificare a dismisura l’immaginario legato agli extraterrestri. Complice l’aumento di avvistamenti nei cieli di tutto il mondo (il primo caso documentato è quello di Roswell, nel New Mexico, nel 1947), a partire dai primi anni ’50 il cinema di fantascienza iniziò a raccontare in vari modi (spesso catastrofistici, è bene dirlo) l’incontro/scontro tra uomini ed extraterrestri. Film come Ultimatum alla terra (1951) di Robert Wise o L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel non sono solo due chiari (e sublimi) esempi di cinema di fantascienza di quegli anni, ma rappresentano anche i modelli con cui le produzioni successive hanno dovuto volente o nolente fare i conti.
Minaccia (o opportunità?) dallo spazio profondo
Come naturale, la fortuna del cinema di fantascienza ha aperto al genere sci-fi anche le porte del piccolo schermo, che guarda caso iniziò a entrare nelle case di tutto il mondo più o meno in quegli stessi anni. L’esempio più fulgido di fantascienza televisiva è ovviamente rappresentato da X-Files (1993-2002, e 2016-2018), ma già in precedenza l’alieno aveva iniziato a fare la sua comparsa in tv grazie a un’altra serie cult: Visitors (1984-1985). Negli ultimi anni, poi, si sprecano i titoli che hanno affrontato il tema; ultimo in ordine di tempo è Il problema dei 3 corpi, nuova serie Netflix disponibile dal 21 marzo sulla piattaforma, tratta dalla saga letteraria dello scrittore cinese Liu Cixin, e adattata per il piccolo schermo dagli ideatori di Il trono di spade David Benioff e D.B. Weiss, e da Alexander Woo (True Blood).
Perché gran parte dei più rinomati scienziati del mondo stanno morendo suicidi? È la domanda che si pone il detective dell’intelligence britannica Dan Shi (Benedict Wong), chiamato a indagare sui misteriosi accadimenti che stanno coinvolgendo i principali “cervelli” dei centri di ricerca più rinomati del mondo e che riguardano molto da vicino un gruppo di amici scienziati: il ricercatore dell’acceleratore di Oxford Saul (Jovan Adepo), la ricercatrice Jin (Jess Hong), l’imprenditrice Auggie (Eiza Gonzàles), l’imprenditore Jack (John Bradley) e l’insegnante Will (Alex Sharp). Ma i misteri non finiscono qui.
Mentre Jin entra in possesso di uno strano visore che le permette di giocare a un videogioco molto (forse fin troppo) realistico, Auggie inizia ad avere una visione inquietante: un conto alla rovescia che parrebbe coincidere con il tempo che le rimane da vivere. Forse, tutti questi accadimenti hanno a che fare con qualcosa successo molto tempo fa, in una regione sperduta della Cina, che ha impattato sulle vite della scienziata Ye Wenjie (Zine Tseng da giovane, Rosalind Chao da anziana) e del magnate Mike Evans (Ben Schnetzer da giovane, Jonathan Pryce da anziano), e che parrebbero preannunciare l’avvento di una civiltà aliena.
Uomini e insetti
Sebbene i romanzi di Liu Cixin siano profondamente radicati nella cultura e nella storia cinese, la serie Netflix sceglie di adottare un carattere internazionale, ampliando l’orizzonte geografico degli eventi, come si evince dalla breve sinossi da noi proposta. La decisione punta ovviamente a rendere il racconto il più inclusivo possibile, e soprattutto ad uso e consumo di un pubblico (tendenzialmente occidentale) ampio. Per questo motivo, i riferimenti fisico-teorici presenti nei romanzi – ne è un chiaro esempio quello dà il titolo alla serie – vengono ridotti all’osso, cedendo così il passo a una narrazione che cerca di mettere in relazione le piccole, infinitesimali vite dei protagonisti (e, in generale, di tutti gli esseri umani) con eventi la cui sconvolgente portata ci pone di fronte a una brutale verità: rispetto al cosmo e alle sue leggi non siamo altro che insetti che si agitano sopra un misero stagno. Proprio per fare emergere questa componente, gli showrunner Benioff, Weid e Wood scelgono una strada assai ardua: ridurre l’azione al minimo, e lasciare spazio ai personaggi e soprattutto alle relazioni che intercorrono tra di loro. Il problema è che la loro idea – sulla carta ambiziosa – si manifesta a sprazzi durante l’arco della narrazione. Come se non avesse il tempo di prendere realmente forma, nonostante le 8 puntate da (più o meno) un’ora ciascuna.
Una lunga stagione pilota
Il vero limite della prima stagione de Il problema dei 3 corpi è, in particolare, il fatto di essere stata concepita come un lungo pilot di quasi otto ore. Dopo le prime quattro puntate che, giustamente, introducono storia e personaggi, e quindi sono dense di accadimenti, la narrazione sembra atrofizzarsi e preoccuparsi solo di “correre” con eccessiva flemma verso un finale tanto scontato quanto desideroso di strizzare l’occhio a una seconda stagione. A subentrare, così, è la noia. E certamente non aiuta quell’aria da prodotto seriale (nel senso più negativo del termine) prestigioso tipico di Netflix: così perfetto nel suo confezionamento, ma sostanzialmente privo di quasi afflato vitale.
Paradossalmente, in un momento storico nel quale gli sceneggiatori (umani) protestano veementemente contro l’utilizzo dell’intelligenza artificiale da parte delle major, la serie Netflix sembra essere il frutto (dal sapore rancido) di un algoritmo incapace di infondere un’anima alle proprie creazioni. Per questo motivo l’ingente sforzo economico (si parla di 100 milioni di dollari di budget) non sembra coincidere con il deludente risultato finale, mentre appare davvero sprecato l’ottimo cast (a cominciare da Jonathan Pryce). Nonostante tutto, comunque, Netflix ha annunciato che gli autori stanno già lavorando a una seconda stagione.
Ciao, per chi ha visto la serie e letto i libri, la prima stagione fino a che libro arriva?
Sto finendo il secondo e non vorrei spolierarmi il resto…
Ciao Roberto. La prima stagione è l’adattamento del primo romanzo della saga letteraria