Il termine “patriottismo” negli ultimi anni ha assunto un’accezione quasi negativa a causa dell’ascesa di partiti politici che hanno fatto dell’italianità un vacuo slogan propagandistico. La difesa a spada tratta degli italiani brava gente – quelli che un tempo venivano elogiati come santi, poeti e navigatori – ha indotto in diversi ambiti a un’esaltazione posticcia del genio italico, specie in quei campi dove è risaputo il gap del nostro paese nei confronti delle nazioni concorrenti. Negli ultimi mesi, ad esempio, questo sterile atteggiamento difensivo ha coinvolto con insistenza il cinema di casa nostra.
Come ormai tutti sanno da decenni: la cinematografia italiana è in crisi. Ogni scusa è buona per ribadirlo, non solo per darci contro (cosa che tra l’altro sappiamo fare assai bene) ma anche per dimostrare/ci che in fondo in questa sorta di valle di lacrime creativo-produttiva c’è ancora qualcosa di che gioire. Di “salvatori del cinema italiano” ormai se ne contano a bizzeffe, così come di falsi profeti. Anzi, a ben vedere questi ultimi sono sempre più numerosi, incensati da una critica che colpevolmente li asseconda. Capita infatti (e non di rado) di trovare manipoli di critici esaltarsi per opere che cercano sì di distinguersi per originalità nell’odierno panorama produttivo italiano, ma che non riescono a trasformare le proprie interessanti idee di partenza in film realmente validi.
Questa “bonarietà critica” è ravvisabile in particolare ogni qual volta si parla di film di genere che non appartengono alla macro-famiglia della commedia. È il caso, ad esempio, di Delta di Michele Vannucci, western ambientato nelle paludi tra Emilia-Romagna e Veneto che punta tutto sull’ambientazione rinunciando alla solidità narrativa; e ancora del recente Nina dei lupi di Antonio Pisu, sulla carta intrigante fantasy horror ambientato in un futuro distopico in cui a una prima parte tutto sommato convincente ne segue una seconda confusa e mal supportata da un cast poco efficace (e forse a sua volta non aiutato dallo script). Lo stesso discorso vale anche per uno dei film italiani più acclamati di inizio anno, da qualche giorno disponibile su Prime Video: L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano (già regista di Escobar con Benicio Del Toro).
Un noir all’italiana
Osannato da gran parte della critica, L’ultima notte di Amore – titolo che gioca volutamente con il cognome del protagonista – rappresenta un raro esemplare di post-noir all’italiana, per certi versi legato al glorioso poliziottesco degli anni ’70 (l’ambientazione milanese), del quale però evita i risvolti comico-grotteschi (che poi sarebbero sfociati nelle proverbiali commedie poliziesche “alla Monnezza”, tanto per intenderci) per avvicinarsi – quantomeno all’apparenza – a un esistenzialismo molto più in linea con il polar francese.
Non ci sono dubbi sul fatto che Di Stefano strizzi l’occhio al cinema muscolare di Olivier Marchal (L’ultima missione), anche se non riesce mai – nonostante le ambizioni – a replicarne lo stile magniloquente, cupo, disperato, talvolta persino eccessivo ma comunque di indubbio impatto spettacolare. Anche il suo film racconta la storia di un antieroe in procinto di cimentarsi con la sua “ultima missione” prima della meritata pensione. Un ultimo incarico che cambierà per sempre il corso della sua (già complicata) esistenza.
Già, perché Franco Amore (Pierfrancesco Favino) non è un poliziotto come tutti gli altri. A poco servono trent’anni di onorato servizio se poi si sceglie – con il cuore, per carità – di sposare una giovane donna imparentata con un clan mafioso, Viviana (Lidia Caridi). Ed è proprio il cugino di lei, Cosimo (Antonio Gerardi), da poco entrato in affari con la mafia cinese, a proporre a Franco un lavoretto facile, facile: recuperare due malavitosi all’aeroporto e condurli in tutta sicurezza in città.
Una notte di lavoro per una ricompensa che garantirebbe alla famiglia Amore una vita più agiata. Naturalmente tutto va storto e Franco, che nel frattempo ha coinvolto nella missione anche il collega Dino (Francesco Di Leva), è costretto a cancellare le prove del proprio coinvolgimento e a guardarsi le spalle dalla gang cinese a cui ha sottratto un prezioso carico.
Poche luci, molte (moltissime) ombre
Domanda a bruciapelo: L’ultima notte di Amore vale il prezzo del biglietto (o, come in questo caso, una serata spesa davanti alla tv)? Partiamo da questo presupposto: se il film avesse mantenuto quanto promesso nei titoli di testa assolutamente sì. In fondo, il film è (in potenza) tutto in quell’incipit di cinque minuti.
Una lenta ripresa dall’alto di Milano, osservata in piena notte: un viaggio nel ventre oscuro di una città per nulla rassicurante, i cui quartieri (da quelli più ricchi ai più popolari) e i propri reticoli infiniti di strade disegnano un intricato tessuto urbano capace di far emergere un senso di inquietudine sottolineato con efficacia anche dalle musiche di Santi Pulvirenti (notevoli). Proprio in virtù di questa conturbante sequenza iniziale, è un peccato che il film tradisca le aspettative. Se Di Stefano si conferma un autore di talento, rimane il rammarico per una sceneggiatura (dello stesso regista) che testimonia un preoccupante disinteresse per la verosimiglianza dell’intreccio.
La narrazione ruota intorno a una specifica situazione/sequenza, ed è da tale situazione/sequenza inevitabilmente condizionata: una sparatoria nel sottopasso di una tangenziale cittadina. Una scena certamente d’impatto, ma inverosimile. Sento già qualche avvocato difensore alzare la voce: “Eh, ma siamo al cinema mica nella realtà”. Ovvio, ma qui non stiamo parlando di licenze poetico-narrative (ogni opera di finzione – che sia film, romanzo, pièce teatrale – ne è piena); no, qui stiamo parlando di altro: della coerenza drammaturgica di un racconto.
Davvero da spettatori siamo obbligati a chiudere non uno, bensì due occhi di fronte all’inverosimile? Per gran parte del film è difficile immedesimarsi nella storia, prendere per vero quanto accade sul grande/piccolo schermo. Mentre Franco Amore cerca di cancellare le prove del proprio coinvolgimento con la mala cinese, si susseguono una serie di peripezie ai limiti dell’assurdo (possiamo anche soprassedere sul fatto che nessuno, pur vedendo Amore sul luogo del delitto, lo riconosca; ma che dire della moglie che – zitta, zitta -, di fronte a uno stuolo di poliziotti, riesce a passare inosservata per recuperare un prezioso bottino?).
Un film che trascura la componente narrativa
Viene spontaneo chiedersi il motivo di tanta negligenza per un film che, oltretutto, non sembra essere stato realizzato al risparmio. Un quesito che assume fattezze preoccupanti nel momento in cui ci si accorge che tale negligenza non è peculiarità del film in questione, bensì un’abitudine delle produzioni italiane. Sappiamo dirigere film, li sappiamo recitare, siamo persino in grado di adottare quello “stile internazionale” che dovrebbe permette (il condizionale è d’obbligo, visti i risultati) una più facile esportazione delle nostre produzioni, ma in fondo i film non li sappiamo scrivere. Bizzarro per una cinematografia che ha costruito gran parte della propria fortuna sulle fatiche degli sceneggiatori, i quali non di rado si sono rivelati eccellenti registi (tra i tanti: Federico Fellini, Mario Monicelli, Ettore Scola).
La sensazione, anche guardando L’ultima notte di Amore, è proprio questa: di un film certamente non disprezzabile ma che trascura (colpevolmente) la componente narrativa. Un film “paradossale”, perché se da una parte rappresenta la possibilità di un altro cinema (una terza via tra quello smaccatamente autoriale e quello eccessivamente popolare), dall’altra è emblema di un’industria (perché il cinema – parafrasando Luigi Chiarini – questo è) che non sembra aver ancora raggiunto la maturità che il mercato impone.