Un vecchio claudicante si avvicina al palcoscenico e prende la parola. “Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per i miei figli” afferma sardonico. E poi aggiunge: “Voglio annunciare ufficialmente il mio ritorno”. Sul pulpito c’è Logan Roy (Brian Cox), arcigno padre fondatore della Waystar Royco: pragmatico e insolente, ha il piglio dell’uomo che si è fatto da sé, disposto a calpestare chiunque si frapponga tra lui e i propri biechi interessi.
Si presume che quello a cui assistiamo nella prima, folgorante, stagione di Succession sia soltanto l’ennesimo di una lunga serie di colpi bassi orchestrati dal capofamiglia ai danni dei figli e in particolare del suo erede designato, Kendall. Più volte, nell’arco delle quattro stagioni che compongono la serie prodotta da HBO (tutte disponibili su Sky Atlantic e NOW), il secondogenito tenterà di spodestare il padre e assumere lui stesso il controllo dell’azienda di famiglia.
Una serie proiettata verso un futuro inevitabile
Il passato della famiglia Roy ci viene esplicitamente suggerito soltanto nella magnifica sigla di apertura a ciascun episodio. D’altronde è il titolo stesso, Succession, a proiettare la serie in un futuro tanto indefinito quanto inevitabile: siamo consapevoli che, presto o tardi, il malandato Logan dovrà congedarsi e quindi essere sostituito. Allo stesso tempo, la serie creata da Jesse Armstrong è fortemente ancorata al momento presente. In un articolo recentemente pubblicato sul Guardian, proprio Armstrong conferma la sovrapposizione tra la Waystar Royco di Logan Roy e la Fox di Rupert Murdoch. Qui scopriamo che l’idea iniziale di produrre una docu-fiction sul magnate americano è poi evoluta in un’opera sì di finzione, ma comunque profondamente intrecciata con fatti storici recenti e in particolare con l’elezione di Donald Trump in America e la Brexit nel Regno Unito.
Il già citato Rupert Murdoch, l’imprenditore Sumner Redstone e l’editore Robert Maxwell convergono nella figura di Logan Roy, che viene così elevato a simbolo del neo-liberismo spinto e del capitalismo sfrenato, riassumendo in sé tutti i principali tratti dell’uomo di potere vecchio stampo, ammanicato e intrigante, in grado di muovere i fili della politica e della diplomazia a suo piacimento. La magistrale interpretazione di Brian Cox da un lato, con il suo oscillare tra il demoniaco e lo strafottente, e l’impostazione del racconto dall’altro, con i suoi dialoghi serrati e sopra le righe, contribuiscono infine a dotare questo personaggio di un’aura epica e teatrale, rafforzata dai plateali echi shakespeariani della storia narrata.
Niente di ciò che viene mostrato in Succession è casuale: non c’è spazio per riempitivi o tempi morti, ogni scena è abilmente architettata affinché il racconto proceda, incalzante, puntata dopo puntata. Il “qui ed ora” vissuto dai personaggi si estende così oltre lo schermo, investendo uno spettatore ora atterrito ora divertito dai drammi che si consumano sulla scena.
Una Storia Americana
Succession è una Storia Americana e quindi, con buona pace di qualcuno, una storia di tutti: le scaramucce di questi ricchi figli di papà, capricciosi e smaniosi di conquistare la propria fetta di potere, ci turbano e ci toccano nel profondo. Questo contraddittorio sentimento di immedesimazione culmina nella stagione conclusiva della serie, dove le idiosincrasie dei personaggi principali raggiungono il punto di non ritorno, con il definitivo disgregamento degli equilibri precari tenuti in piedi fino a quel momento. Il passato è escluso dal racconto e, tuttavia, vi si allude continuamente: un non-detto che incombe sulle vite di tutti e che, pesante come un macigno, indirizza le scellerate azioni dei protagonisti.
Una famiglia in brandelli
Succession è, anche e soprattutto, la storia di una famiglia in brandelli. La freddezza e la crudeltà delle interazioni tra fratelli, con i loro feroci tentativi di reprimere un affetto reciproco e profondo, sono frutto di una frustrazione condivisa e maturata negli anni: Kendall, Roman e Shiv sono tutti devastati, ognuno a suo modo, dall’onnipresenza di un padre calcolatore e anaffettivo. Logan guarda i figli dall’alto in basso, li usa come marionette, gode più delle loro sconfitte che dei loro successi. Se vi è una qualche debolezza, in questo glaciale patriarca, essa è rappresentata proprio da loro tre; li ama e questo non può tollerarlo, poiché allo stesso tempo ne disprezza l’eccessiva emotività, l’assenza di strategia, l’ambizione vuota e fine a sé stessa.
I tre figli sono tutto ciò che Logan non è, un promemoria vivente della sproporzione tra successo pubblico e fallimento privato. La lotta per la supremazia in azienda diventa così una questione di principio, un distorto tentativo in extremis di educare la prole alla legge del più forte. Tuttavia, nessuno di loro si dimostrerà all’altezza: né Kendall (Jeremy Strong), un adulto bambino, spezzato tra la brama di compiacere il padre e la profonda esigenza di svincolarsene, né Shiv (Sarah Snook), all’apparenza pragmatica ma in costante balìa delle proprie emozioni, né tantomeno Roman (Kieran Culkin), un giullare triste e isterico, irrimediabilmente segnato da anni di umiliazioni e denigrazioni paterne. Il più forte si rivelerà, a sorpresa, il fratello maggiore Connor (Alan Ruck), figlio di primo letto di Logan: appagato dalla sua ricchezza e quindi disinteressato al riscatto cui ambiscono i fratellini, si mostra per quel che è, rinunciando a qualsiasi forma di strategia e conquistandosi così un accesso privilegiato all’umanità del padre.
E poi ci sono Tom Wambsgans (Matthew MacFayden) e Greg Hirsch (Nicholas Braun): rispettivamente genero e nipote di Logan, saranno complici dello sberleffo finale ai danni della progenie Roy, con la decretazione della caduta definitiva delle maschere. Arrampicatore sociale e protagonista di una progressiva metamorfosi in abile e cinico calcolatore, il primo; ingenuo e fuori posto, ma con l’intraprendenza fondamentale per sopravvivere in un mare pieno di squali, il secondo. Tom, in particolare, è rappresentante di un’umanità spregiudicata e priva di etica ed empatia, il classico imprenditore che si è fatto da sé, all’occorrenza disposto a derogare ai propri princìpi morali e quindi destinato ad eccellere nel perverso gioco al massacro promosso dalle società capitaliste.
L’esaltazione del nuovo che avanza
Tuttavia, spetterà ad un jolly far saltare definitivamente il banco. Lukas Matsson (Alexander Skarsgård), estraneo alla famiglia e alle sue dinamiche malate, è un arricchito ed è per giunta europeo. Lui che agli abiti firmati preferisce le infradito e possiede un self-control ignoto ai nevrastenici Roy, è il simbolo del nuovo che avanza: un’imprenditoria costruita sull’hi-tech e sulle app, governata da giovani hipster attivi sui social e ostili ai vecchi ruderi tipo Logan. Il suo unico scopo è fare soldi, tanti, possibilmente a spese di qualche riccone viziato. Lo sprezzante svedese piace al vecchio, il quale vede in lui una sua versione 2.0 ma egualmente egocentrica e cinica, oltre che la possibilità di tutelare le tasche dei figli incapaci strappandogli dalle mani un’azienda che non sono in grado di gestire.
La volontà di Matsson di acquisire e inglobare la Waystar Royco nella sua compagnia fiorente e appena nata viene sponsorizzata a ruota dai membri più anziani del consiglio di amministrazione e ostracizzata dai più giovani, che si sentono depredati di un diritto acquisito per nascita. Nella quarta stagione di Succession assistiamo così alla faida definitiva tra le parti, consci che qualche testa salterà.
Un finale memorabile nel suo nichilismo cupo e doloroso
I dieci episodi conclusivi tirano le fila del racconto, che si compie nell’unico finale possibile, memorabile nel suo nichilismo cupo e doloroso. Una regia intelligente (dove si sente l’impostazione di Adam McKay, che è anche produttore esecutivo accanto a Will Ferrell) e un ensemble di attori straordinari permettono alla creatura di Jesse Armstrong di sfiorare più volte la perfezione. Questa viene raggiunta nello sconvolgente episodio tre: un autentico capolavoro, dove l’ispirazione tragica della vicenda trova la sua piena realizzazione, spiazzando definitivamente uno spettatore compiaciuto da una scrittura tanto arguta e brillante. Una premonizione di sventura incombe sugli eventi successivi, scanditi dalla sontuosa colonna sonora firmata da Nicholas Britell: gli anti-eroi, travolti dalla loro stessa hybris e condannati in eterno dal beffardo spettro del padre, dovranno finalmente fare i conti con le proprie meschinità e umane fragilità.
Succession: una serie imprescindibile
Forse chi ha definito Succession una serie imprescindibile ha ragione. Al di là del suo indiscutibile valore artistico, essa è necessaria nella misura in cui parla a tutti noi, impotenti attori di un sistema malato, insignificanti pedine in mano a chi decide al posto nostro, cullandoci nella falsa illusione che siamo noi i padroni del nostro destino. Ebbene sì, anche i ricchi piangono e ci scopriamo inaspettatamente empatici nei loro confronti. Almeno finché non subentrano rabbia e consapevolezza.