Boris, la prima fuoriserie italiana, è tornata disponibile su Netflix. “Giuoia e giubilo” per questa notizia che arriva in un periodo difficile per il mondo dell’audiovisivo – a causa dell’irruzione improvvisa del COVID-19 nelle nostre vite – che è fermo ai blocchi di partenza, in attesa di ripartire.
La serie, nata da un’idea dei soggettisti Luca Manzi e Carlo Mazzotta, e rielaborata dalla fantasia iperattiva degli sceneggiatori Giacomo Ciarrapico, Luca Vendruscolo e dal compianto Mattia Torre, debuttò sulla tv via cavo Fox nel 2007, in un momento in cui il mondo della serialità italiana non brillava per originalità né tantomeno per qualità: prendendo come punto di riferimento il longevo format della soap opera, vedeva un piccolo schermo diviso in prodotti vicini alla formula di Beautiful – saghe melodrammatiche giornaliere – e di fiction prettamente “made in Italy”.
L’arrivo di Boris sancì una vera e propria rivoluzione: irriverente, libera, anarchica e dissacrante, la serie – tre stagioni e una trasposizione cinematografica – ha fatto breccia nel cuore degli spettatori fin da subito, in parte grazie al cast in stato di grazia, tra i quali possiamo citare le presenze di Francesco Pannofino, Carolina Crescentini, Pietro Sermonti, Alessandro Tiberi, Caterina Guzzanti, Karin Proia, Roberta Fiorentini, Ninni Bruschetta, Paolo Calabresi, Antonio Catania, Massimiliano Bruno e tante guest star di lusso come Paolo Sorrentino, Marco Giallini, Giorgio Tirabassi, Corrado Guzzanti, Filippo Timi, Roberto Herlitzka, Valentina Lodovini e Luisa Ranierie.
Ma il vero motivo dietro il successo di questo prodotto, definito proprio per tale motivo “fuoriserie”, risiede proprio nell’abilità di prendere i cliché che ruotano intorno al mondo dello spettacolo – e soprattutto del piccolo schermo – riconfermandoli, invece di dissipare le ombre intorno ad essi. Il punto di forza di Boris si annida nel suo cuore irriverente: nella sfrontata, spregiudicata, bellezza di ammettere le proprie debolezze senza mai nascondersi, giocando piuttosto con l’arte che finisce per imitare l’arte, con la televisione che riflette su sé stessa innescando crudeli giochi meta-televisivi al limite dell’irresistibile.
Per quanto comunemente si tenda a non associare la serie alla lunga tradizione della Commedia all’Italiana, Boris è forse il prodotto più riuscito – in tale ottica – partorito negli anni 2000: perché attraverso una risata si può dire tutto, perfino la verità (parafrasando Freud) e René Ferretti con la sua troupe/ciurma degenere, nevrotica e pittoresca ce lo dimostra. Prendendosi poco sul serio, si beffeggiano comportamenti, vizi privati e pubbliche virtù di un piccolo schermo di bassa qualità sull’orlo di una crisi di nervi, conteso tra attori narcisisti, incapaci ed arrivisti; produttori “cialtroni” e senza scrupoli, irrecuperabili egocentrici e “artisti” corrosi dall’eterno dilemma morale tra alta qualità o trash televisivo.
Sono passati anni dal debutto della serie prima su Fox, poi su Cielo e infine in chiaro su Rai 3; anni in cui la fama delle avventure di “quelli del pesce rosso” (Boris, appunto) è cresciuta soprattutto grazie alla pirateria e al passaparola che l’hanno trasformato, in brevissimo tempo, in un prodotto collaterale nonché nell’unica vera risposta alle offerte della televisione generalista. Ogni battuta si è trasformata rapidamente in un tormentone cult impossibile da non conoscere e da non utilizzare nella vita quotidiana (chi non ha mai esclamato “Biascica, apri tutto!” almeno una volta nella vita?) e i personaggi creati dai tre sceneggiatori a partire da un attento studio della realtà sono entrati, di diritto, nell’immaginario collettivo, innalzando la serie allo status di cartina tornasole – comica – di un’industria torbida ed evanescente.
Un’industria che, nel suo magma caotico e pittoresco, finisce per somigliare con la sua teoria inesorabile di caratteristi e caratteri ad un vero acquario: perché proprio come accadeva nei primi due Fantozzi targati Luciano Salce, si raccontano i difetti dell’italiano medio in tutte le sue infinite sfaccettature, rispecchiati nel riflesso dei suoi protagonisti. Comuni, pieni di difetti appunto, e proprio per questo reali e fondamentali per raccontare un’Italia in continuo cambiamento la quale, però, deve restare staticamente immobile per permettere che qualcosa possa mutare (rubando il concetto al Tomasi di Lampedusa de Il Gattopardo).
A distanza di anni una visione di Boris è consigliata perché parla ancora di noi, ma soprattutto parla di un settore – quello dello spettacolo – senza deriderlo ma utilizzando l’arma dell’umorismo corrosivo per dissacrarlo senza mai edulcorarlo e senza mai doversi censurare. E pur non appartenendo al mondo dell’intrattenimento, si finisce per sentirsi parte di questo enorme acquario dove navighiamo tutti un po’ a vista come il piccolo Boris, pesce rosso che ha involontariamente generato un fenomeno di massa tuttora attuale.