giovedì, Febbraio 6, 2025
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Black Mirror: riflessi in uno specchio oscuro. Un’analisi della sesta stagione

È da poco disponibile su Netflix la sesta stagione di Black Mirror, la serie antologica creata da Charlie Brooker. Ecco la nostra analisi di questi nuovi cinque episodi.

Riflessi in uno specchio oscuro è il titolo italiano – un tempo era lasciata tanta libertà a chi adattava i titoli per il mercato nostrano, con risultati tra il brillante e la pura follia – di un cupo poliziesco diretto da Sidney Lumet, dove Sean Connery regala una delle sue interpretazioni migliori. Vi starete chiedendo, dopo aver letto il titolo di questo articolo, che cosa c’entri con Black Mirror; ebbene, la frase utilizzata come titolo italiano della pellicola di Lumet – in originale semplicemente The Offence – rispecchia perfettamente lo spirito della celebre serie antologica.

La creazione per il piccolo schermo di Charlie Brooker (Dead Set, Cunk on Earth), infatti, non ha smesso negli anni di porci domande scomode con le sue storie inquietanti, portandoci a riflettere sulle contraddizioni e sulle inquietudini insite nella nostra società e in noi stessi. Uno specchio oscuro che offre, appunto, un riflesso deformante del nostro presente e del nostro essere, prediligendo il filtro del genere distopico. Con un occhio di riguardo quasi sempre puntato sulle nuove tecnologie e sul modo in cui potrebbero negativamente impattare sui rapporti interpersonali.

Le nobili origini antologiche

Dopo una lunga assenza, durata quattro anni, Black Mirror torna su Netflix con cinque nuovi episodi. Una sesta stagione che non perverte la natura antologica della serie, presentando trame autoconclusive di una puntata – con, a volte, solo qualche piccolo riferimento a precedenti episodi, più a mo’ di easter egg (il documentario “Eutanasia: dentro il Progetto Junipero”, citato nel secondo episodio) -, che riflettono sull’attualità attraverso elementi fantascientifici o fantastici. Molte delle idee alla base delle storie di Black Mirror potrebbero benissimo rientrare sotto la definizione di high concept, senza però che questo vada a discapito delle tematiche trattate, mettendo sempre al centro l’elemento umano.

Un’attitudine che affonda le sue radici in un classico come Ai confini della realtà, serie del 1959 ideata da Rod Serling, che ha avuto, negli anni, diverse reiterazioni (la più recente, datata 2019 e mantenente il titolo originale The Twilight Zone, è stata prodotta da Jordan Peele). Storie di persone comuni alle prese con l’ignoto – declinato attraverso vari generi, dalla fantascienza all’horror -, che spesso si manifesta per smascherare le ipocrisie e le debolezze dei protagonisti, impartendo lezioni morali (esemplare, in questo senso, l’episodio, ambientato durante la Seconda guerre mondiale, A Quality of Mercy, dove un cambio radicale di prospettiva dà una lezione di empatia ad un ufficiale americano).

Aaron Paul in Black Mirror. Cr. Nick Wall/Netflix © 2023.

Una riflessione metatestuale

Alla lezione di Ai confini della realtà, Black Mirror applica un’originale riflessione metatestuale, già fortemente presente nello speciale interattivo del 2018 Black Mirror: Bandersnatch, dove era portata avanti con uno spirito ludicamente postmoderno. La sesta stagione riprende il discorso metatestuale nei sui primi due episodi, Joan è terribile e Loch Henry, riflettendo sulla stessa piattaforma di streaming ospitante della serie: Netflix, qui rappresentata dalla fittizia Streamberry, con logo e interfaccia molto simili.

In Joan è terribile, la titolare (Annie Murphy) è la CEO di una tech company che ritrova la sua vita trasposta in una serie tv con protagonista Salma Hayek. Scoprirà presto di aver accettato surreali condizioni di sfruttamento dei suoi dati personali da parte della piattaforma Streamberry e di non poter far niente a riguardo. Una situazione insostenibile, che le costerà sia il compagno Krish (Avi Nash) che il lavoro, fino a spingerla ad assurdi atti estremi, dettati dalla disperazione.

Nell’era in cui tutti vogliamo essere protagonisti, ma alle nostre condizioni, controllando la narrazione e mostrando solo una impeccabile – e poco veritiera – versione di noi stessi, Black Mirror mette in scene l’incubo perfetto: un alter ego che esaspera i nostri lati negativi, di cui tutti possono godere attraverso lo streaming. Il tutto generato da un malefico algoritmo, che ben conosce il soggetto di visione preferito dalla sua utenza: vedere gli altri al loro peggio per sentirsi migliori, pontificando, e ridere delle loro disgrazie. Un delirio ironico e grottesco che, nell’epilogo, ricorda il finale squisitamente meta della serie Marvel Studios She-Hulk: Attorney at Law.

In Loch Henry, l’autoanalisi sulla politica delle piattaforme si fa più seriosa, sposando i toni foschi del thriller, in un’ambientazione in sentore di folk horror: un isolato paesino scozzese, dove tutti gli abitanti sembrerebbero avere qualcosa da nascondere. Davis (Samuel Blenkin) torna nel villaggio natale di Loch Henry insieme alla fidanzata Pia (Myha’la Herrold); i due sono entrambi studenti di cinema. Con l’idea di realizzare un documentario sugli orribili omicidi perpetrati anni prima da Iain Adair (una sorta di Ed Gein locale, interpretato da Tom Crowhurst), la coppia porterà a galla una terribile verità che li riguarda da vicino.

Un secondo episodio che prende di mira la predilezione delle piattaforme per i contenuti true crime, con il catalogo sempre ben fornito di lungometraggi e miniserie riguardanti i fatti di cronaca nera più oscuri ed efferati, con una propensione per una narrazione dal tono sensazionalistico, sempre pronta a sottolineare gli elementi più scabrosi e a calcare la mano sulle reazioni emotive dei testimoni (esempi come Conversazioni con un killer: il caso Bundy, o anche i nostrani SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano e Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi).

Annie Murphy in Black Mirror. Cr. Nick Wall/Netflix © 2023.

Tutti i generi di Black Mirror

Come il progenitore Ai confini della realtà, Black Mirror si distingue per la varietà di genere dei suoi episodi, con l’elemento perturbante come costante. Questa sesta stagione non fa eccezione, ma anzi spinge ulteriormente sulla diversificazione di tono e genere tra le diverse puntante. Se nelle prime due succitate abbiamo un assurdo incubo tecnologico-kafkiano e un thriller che riflette sul mondo dei contenuti true crime, la terza ritorna alla fantascienza, genere principe della serie creata da Charlie Brooker.

Beyond the Sea ci porta nel passato, nel 1969, ma non in quello che ben conosciamo, ma in una realtà ucronica, dove la tecnologia ha fatto passi da gigante, superando, in certi aspetti, anche quella del nostro presente. I lunghi viaggi spaziali sono una realtà, così come una tecnologia che permette agli astronauti, durante le interminabili missioni, di poter far visita alle loro famiglie, connettendo la propria coscienza ad un avatar cibernetico sulla Terra.

È in questo contesto che si consuma la tragedia dei due viaggiatori spaziali Cliff (Aaron Paul) e David (Josh Hartnett); una storia con componenti indubbiamente sci-fi, ma che assume, sempre più, le caratteristiche di un intimo e cupo dramma umano (siamo più dalle parti di Moon di Duncan Jones che di Interstellar). Trova anche spazio uno dei più oscuri elementi dell’immaginario pop dei tardi anni ’60: una banda di hippy assassini modellata sulla tristemente nota Manson Family.

Tornando a parlare di varietà di generi, Mazey Day e Demon 79, gli ultimi due episodi di questa stagione di Black Mirror, appartengono sicuramente al reame dell’horror, ma in declinazioni completamente diverse. Se Mazey Day è una classica “cautionary tale”, come direbbero gli anglofoni, dove l’invadenza di alcuni paparazzi viene punita da una star diventata licantropo (Clara Rugaard) – un po’ sul modello dei racconti dell’orrore con morale di “Tales from the Crypt” -, Demon 79 prende un’altra strada.

La puntata conclusiva, infatti, sceglie il tono satirico di certo horror contemporaneo, di cui Scappa – Get Out è l’esempio più conosciuto. Ambientato, come deducibile dal titolo, alla fine degli anni ’70, Demon 79 usa un elemento sovrannaturale-demoniaco per commentare il clima politico dell’Inghilterra dell’epoca – pervasa da un sentimento nazionalista, non dissimile da quello attuale del periodo Brexit – dal punto di vista di una giovane ragazza di origini indiane, Nida Huq (Anjana Vasan). L’unico episodio di questa stagione che Brooker non firma da solo, appoggiandosi alla comica britannico-pachistana Bisha K. Ali (già showrunner della serie Ms. Marvel), regalando un epilogo che ricorda da vicino La zona morta di Stephen King e David Cronenberg.

Marco Scaletti
Marco Scaletti
Prima sono arrivati i fumetti e i videogiochi, dopo l'innamoramento totale per il cinema e le serie tv. Consumatore onnivoro dei generi più disparati, dai cinecomics alle disturbanti opere del sommo Cronenberg | Film del cuore: Alien | Il più grande regista: il succitato Cronenberg o Michael Mann | Attore preferito: Joaquin Phoenix | La citazione più bella: "I gufi non sono quello che sembrano" (I segreti di Twin Peaks)

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