Quante volte negli ultimi tempi abbiamo sentito dire a qualche nostro conoscente o amico la frase: il mondo del lavoro sta cambiando. Senza dubbio una verità conclamata, ma che troppo spesso associamo alla contemporaneità. Ad esempio, la Pandemia ha sdoganato anche in Italia l’opportunità dello smartworking, ma tale pratica era già diffusa da anni. Così come il (tutto sommato) recente proliferare di spazi di co-working nel nostro Paese non deve far dimenticare che il primo ambiente di lavoro condiviso venne aperto nei primi anni 2000, e che fu soprattutto la crisi finanziaria del 2008 a determinarne il successo, grazie all’ottimo rapporto costi/benefici. Un business che ha avuto alti e bassi, e che è stato anche al centro di un recente scandalo finanziario oggi riportato alla ribalta dalla serie WeCrashed, le cui prime puntate saranno disponibili dal 18 marzo su Apple Tv+.
Forse a molti il nome WeWork non dirà molto. Eppure si tratta di una delle aziende leader nel settore. Fondata nel 2010 da Adam Neumann e Miguel McKelvey, WeWork ha avuto un immediato successo e prima della sua scelta di quotarsi in borsa (nel 2019) contava 527 mila iscritti e spazi in 111 città in 29 paesi del mondo (tra cui anche l’Italia). Una crescita esponenziale che proprio in occasione della sua entrata in borsa mostrò l’altro lato della medaglia: l’azienda aumentava sì i suoi guadagni, ma le sue perdite era talmente ingenti da neutralizzare ogni possibilità di crescita futura. Morale della favola: Neumann fu messo alla porta (con una discreta buonuscita) dal Consiglio Direttivo dell’azienda (che oggi continua la sua corsa con un piano d’azione più realistico e sostenibile).
La serie, sviluppata da Lee Eisenberg e Drew Crevello a partire dal podcast WeCrashed: The Rise and Fall of WeWork, si concentra proprio sull’ascesa (all’apparenza irrefrenabile) e la caduta (tanto inaspettata quanto fragorosa) del sogno imprenditoriale di Neumann e McKelvey. Una storia da noi poco conosciuta che WeCrashed racconta dal punto di vista dei protagonisti, facendo emergere la loro sfrenata ambizione e la loro ossessione nei confronti del successo. Concentrandosi in eguale misura sulla vita professionale e su quella privata dei personaggi – in particolare di Neumann e della moglie Rebekah Paltrow (cugina della ben più celebre Gwyneth) -, e affidandosi a un’estetica accattivante (un po’ troppo patinata, ma comunque funzionale).
New York, 2008. Adam (Jared Leto) è un giovane di origini israeliane giunto negli Stati Uniti in cerca di fortuna. Le sue idee imprenditoriale sembrano però non incontrare il favore dei potenziali finanziatori; questo almeno fino a quando insieme all’architetto Miguel (Kyle Marvin) non decide di aprire un innovativo spazio di co-working (GreenDesk). Gli affari vanno bene, ma Adam sogna ancora più in grande e convince il socio a imbarcarsi in un progetto ancora più ambizioso. Nasce così WeWork, in parte finanziato con la vendita della precedente attività e in parte con i soldi del padre della moglie di Adam, Rebekah (Anne Hathaway), aspirante attrice, insegnante di Yoga e futura partner in crime del marito. Tutto sembra andare gonfie vele, ma ben presto i conti dell’azienda iniziano ad andare in passivo.
«WeWork non è uno spazio di lavoro condiviso, è un movimento». Sono queste le parole che Adam è solito ripetere a collaboratori, finanziatori, giornalisti. Ma è il caso di dire che WeWork è anche – se non soprattutto – l’ossessivo sogno di un uomo che incarna il Capitalismo più cieco e sfrenato; quello del «l’importante è il guadagno, non le perdite». La finanza come sfacciata speculazione, l’imprenditoria come scommessa contro tutti e contro tutto, e soprattutto come terreno fertile per coltivare il proprio smisurato ego. È questa l’immagine di Adam Neumann offerta dalla serie WeCrashed: quella di un uomo solo che corre incontro al proprio destino senza curarsi di ciò che gli sta intorno. Un uomo che ama la moglie, ma che a lei preferisce l’azienda; un uomo che mente sapendo di mentire; un one man show della finanza consapevole che l’apparire è più decisivo dell’essere (o comunque fa guadagnare tempo, e il tempo è denaro).
Ma chi è davvero Adam Neumann? Sembra chiedersi un po’ questo la serie distribuita da Apple Tv+, decisamente più interessata a narrare la vicenda “dall’interno”, convinta che la storia di WeWork sia impossibile da raccontare senza porla in parallelo a quella del suo fondatore. Così, durante il corso delle puntate alle vicissitudini legate allo sviluppo aziendale si alterna la descrizione della vita privata dei protagonisti. Quella di Adam, visionario e intraprendente innovatore, sagace imprenditore di sé stesso, trascinatore di folle, e allo stesso tempo spietato manipolatore; ma anche quella della moglie Rebekah, donna all’apparenza molto sicura di sé, ma in realtà costantemente minacciata da traumi familiari mai superati e da frustrazioni professionali (insomma, non dev’essere facile sognare di fare l’attrice e riscoprirsi priva di talento quando hai in famiglia una cugina premio Oscar).
Così facendo è chiaro che la serie punti molto (per non dire tutto) sull’alchimia tra i due attori protagonisti: Jared Leto e Anne Hathaway. Bravi, belli e capaci di donare un’anima ai loro personaggi, mettendone in risalto soprattutto le fragilità nascoste. Encomiabile è soprattutto il lavoro sul personaggio di Leto. Pur essendo già abituati da spettatori ad apprezzarne il talento camaleontico (si pensi alla personificazione di Paolo Gucci in House of Gucci) in WeCrashed l’attore premio Oscar recupera, oltre la sua bellezza (50 anni e non sentirli, anche se qui c’è lo zampino della CGI), il suo charme per dare corpo (e voce, con tanto di accento israeliano) a un personaggio certamente ambiguo, ma senza dubbio affascinante.
Questo esibito interesse della serie nei confronti dei personaggi, di per sé lodevole, rende però meno efficace lo sguardo di insieme sull’azienda WeWork e sulla realtà sociale ed economica che ne ha permesso l’ascesa e ne ha anche determinato la (temporanea) disfatta. Quello che manca a WeCrashed è una visione di insieme. La narrazione si sviluppa troppo in superficie e in modo unidirezionale, scegliendo di non approfondire mai il rapporto dell’azienda con gli sviluppi del sistema economico americano. Così facendo, la serie di Eisenberg e Crevello procede senza grandi scossoni. Non c’è mai un cambio di prospettiva. E forse questo è il limite più grande di una serie che racconta una storia di ascesa e caduta come tante, ma che risulta manchevole di quella necessità che fa la differenza tra un prodotto buono e uno sufficiente.