Potrebbe sembrare una storia uscita dalla penna di uno scrittore, eppure è tutto vero. The Staircase – Una morte sospetta, miniserie in 8 episodi disponibile su Sky e NOW, racconta la singolare vicenda di Michael Peterson, protagonista di uno dei casi giudiziari più discussi della storia degli Stati Uniti. Autore di media fama ed ex candidato al seggio comunale della cittadina di Durham (North Carolina), all’epoca dei fatti Peterson era un personaggio relativamente noto all’interno della sua comunità.
La sera del 9 dicembre 2001, Peterson (Colin Firth) trova il corpo della moglie Kathleen (Toni Collette) riverso infondo alle scale di casa. L’uomo è il primo testimone di una scena agghiacciante, perturbante nella sua (non più) rassicurante cornice domestica: gli occhi aperti sul vuoto, la bocca spalancata in una smorfia di dolore, la testa fracassata, il sangue schizzato da tutte le parti. Questo è ciò che vede Michael prima di decidersi a chiamare i soccorsi. Da questo momento in poi, la vita di Peterson subisce un prevedibile contraccolpo: unico sospettato, Michael si prepara ad affrontare un lungo processo, che si rivelerà poi emblematico delle storture di un sistema marcio e di una società avida di sensazionalismo spicciolo. Mentre si svolge lo scontro senza esclusione di colpi tra pubblica accusa e difesa (la prima determinata a distruggere l’imputato, facendo leva su prove indiziarie e fatti privati, la seconda ignara di quali pesci prendere per aiutare un assistito apparentemente indifendibile), la famiglia si spacca e tanto gli opinionisti da salotto quanto i professionisti coinvolti nelle indagini si radunano in tifoserie, ognuno convinto di possedere la proverbiale verità in tasca.
La miniserie, prodotta da HBO Max e creata dal talentuoso Antonio Campos, ripercorre con dovizia di particolari le varie fasi del procedimento legale che seguì il tragico fatto, tanto da apparire persino ridondante a chi abbia già avuto modo di scontrarsi con l’omonima docu-serie francese (disponibile all’interno del catalogo Netflix), il cui valore artistico e sociale è unanimemente riconosciuto da pubblico e critica. A pochi giorni di distanza dalla morte di Kathleen, l’attenzione del regista Jean-Xavier de Lestrade, interessato a girare un film genericamente incentrato su luci e ombre del sistema giudiziario statunitense, venne catturata dalla vicenda dei Peterson. Le interminabili ore di girato, poi selezionate e trasformate in una serie composta da 13 episodi, rappresentano una preziosa testimonianza del caso, cui gli autori di The Staircase non potevano fare altro che attingere a piene mani, di fatto riadattandola per il piccolo schermo.
Non stupisce quindi che Jean-Xavier de Lestrade sia ritratto, a sua volta, tra i personaggi della miniserie. La genesi del documentario, con le conseguenti interazioni – dapprima professionali e poi, gradualmente, sempre più intime – tra i collaboratori del regista e gli attori della vicenda processuale e umana, costituiscono un fondamentale tassello del racconto, che si rivelerà poi determinante nel verificarsi delle successive svolte narrative. Ma, vale la pena sottolinearlo, sarebbe più corretto parlare di drammatizzazione di fatti realmente accaduti piuttosto che di narrazione tout court: ciò che vediamo è realmente successo e, quando anche presenti, gli elementi finzionali restano comunque ancorati alla realtà. Questi ultimi riguardano, in modo particolare, le interazioni tra i membri della famiglia Peterson, descritte nella loro evoluzione (o, più spesso, involuzione), con un ampio ricorso a flashback e flashforward.
Questi salti temporali, ben lungi dal risultare artefatti, consentono piuttosto a The Staircase di brillare laddove il documentario di de Lestrade era apparso opaco: esplorare l’umanità dei singoli personaggi, con una particolare attenzione a Kathleen. Gran parte del merito va a Toni Collette, eccezionale nel restituire vita e dignità ad una figura relegata per troppo tempo sullo sfondo di questa assurda vicenda. Non più identificata come “semplice” (e quasi anonima) vittima, Kathleen è madre e moglie amorevole, ma anche donna profondamente insofferente e tormentata da dubbi e frustrazioni. Un approfondimento (in parte) analogo è riservato al personaggio di Michael. L’atteggiamento contraddittorio e velatamente sinistro dell’uomo, già emerso nel documentario originario, viene qui ulteriormente scandagliato. La performance strepitosa di un Colin Firth in stato di grazia ci restituisce l’immagine enigmatica di un bugiardo patologico, odioso e dispotico con i figli, pavido e passivo con la moglie, ma non per questo meno umano o immeritevole di un giusto processo.
Oltre al rispetto e al tatto nella raffigurazione di una vicenda tanto dolorosa da aver messo in crisi la stabilità emotiva di un nucleo familiare un tempo unito, nella scrittura di Antonio Campos e Maggie Cohn si ravvisa la consapevole scelta etica di non speculare sulla morbosità del pubblico e di puntare, piuttosto, su un sano distacco, conferendo così alla serie quella stessa credibilità che aveva contraddistinto il lavoro di de Lestrade e soci. Di primo acchito, poiché si è scelto di non aggiungere nulla al corposo materiale già a disposizione del pubblico, The Staircase si esporrebbe al concreto rischio di risultare interessante soltanto a coloro che non avevano mai sentito parlare di questo caso. Agli altri, invece, non resterebbero che il piacere e la curiosità di vedere un ottimo cast alle prese con un numero imprecisato di situazioni già “agite” da persone reali all’interno del documentario francese.
Sarebbe tuttavia ingeneroso fermarsi alla superficie di The Staircase senza tenere conto del sottotesto che la attraversa e che mette in campo una complessa riflessione su narrazione, affabulazione e sugli obblighi morali di chiunque si accinga a raccontare una storia. Che cosa è un racconto, se non un sofisticato tentativo di persuasione del pubblico? La componente meta-cinematografica, assai preponderante all’interno di The Staircase per motivi di cronaca (visto che c’era, effettivamente, un documentarista al lavoro sul caso), assume così una valenza ulteriore, legata alla responsabilità del narratore e alla sua impossibilità di liberarsi totalmente di un punto di vista soggettivo, emotivo, e quindi non del tutto obiettivo. The Staircase parla della faticosa e spesso illusoria pretesa di giungere ad una verità assoluta, oggettiva, svincolata da pregiudizi, e dell’estrema facilità con cui spesso ci ritroviamo a condannare o ad assolvere sulla base di racconti parziali, di scenari ipotizzati, di giudizi raffazzonati.
La miniserie smaschera, con fine intelligenza, il meccanismo perverso che tutti noi mettiamo in atto quando, di fronte ad uno schermo televisivo o ad un articolo di giornale, spariamo sentenze categoriche e impartiamo punizioni sulla scorta di una suggestione, di una convinzione, di una presunta verità ben custodita nelle nostre tasche. La vicenda di Michael Peterson, con tutti i suoi imprevedibili colpi di scena, diventa così occasione esemplare per invitarci a riflettere, ad evitare (la prossima volta) di prendere posizioni nette, ad astenerci dal partecipare all’ennesima gara morbosa tra detective in erba ed esperti forensi improvvisati, a non cedere alla tentazione di unirci alla claque più numerosa. Per questi motivi, l’aula di tribunale viene infine eletta a luogo simbolico, sede ufficiale di una gara tra storie, dove soltanto la più convincente potrà essere promossa a verità insindacabile, la cosiddetta “verità giudiziaria”, l’unica a cui tutti dovrebbero fare riferimento, mettendo da parte emotività e sensazioni a pelle.
Nella postfazione al Fu Mattia Pascal, scritta a posteriori e in risposta a chi tacciava il romanzo di inverosimiglianza, Luigi Pirandello scriveva: “[…] Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità.” Si tratta di un mònito che tutti noi dovremmo tenere a mente, sia quando giudichiamo un fatto di cronaca, sia quando valutiamo un’opera narrativa. A questo sembrano aggrapparsi gli autori di The Staircase e a confermarlo è la scelta di far morire Kathleen non una, ma ben tre volte, come il numero dei possibili scenari ipotizzati durante il processo e adesso freddamente ricostruiti all’interno della serie. Tutti così verosimili da annullarsi a vicenda. Tutti così angoscianti da ricondurci all’unica verità incontrovertibile di questa storia: Kathleen Peterson non c’è più.