Mike Flanagan ci ha abituato ad accattivanti racconti horror, tanto stratificati da intrattenere l’amante del jump scare e, allo stesso tempo, indurre lo spettatore più ambizioso a riflettere su tematiche complesse, non così ovvie per un prodotto di consumo indirizzato al grande pubblico. Con The Midnight Club, serie in 10 episodi targata Netflix e uscita sulla piattaforma streaming lo scorso 7 ottobre, Flanagan si riallaccia allo stesso filone che lo ha reso celebre, quello dell’horror esoterico, rivolgendosi stavolta ad una specifica fetta di pubblico: gli adolescenti. Flanagan, infatti, riadatta per il piccolo schermo l’omonimo romanzo (1994) di Christopher Pike, sorta di “fratello minore” del più noto R.L. Stine.
Otto adolescenti sono ospiti di Brightcliffe, un’antica struttura adibita ad hospice per giovanissimi malati terminali. Il gruppo di amici si riunisce ogni notte, ad insaputa della direttrice (Heather Langenkamp, la celebre Nancy Thompson della saga di Nightmare), per raccontarsi storie horror attorno al camino, fedeli alla tradizione del “Midnight Club”, inaugurato decenni prima da una giovane paziente miracolosamente guarita dalla malattia. L’ultima arrivata, Ilonka (Iman Benson), è determinata ad indagare sugli inquietanti segreti custoditi da Brightcliffe.
Le oscure presenze che popolavano i corridoi di Hill House e i malefici vampiri di Midnight Mass sono ormai uno sbiadito ricordo. Il vero mostro, in The Midnight Club, è la malattia, anticamera di una morte annunciata, con cui i giovani protagonisti devono venire a patti per godere appieno degli ultimi mesi che gli restano. La tematica scontatissima del male incurabile che colpisce gli adolescenti evidentemente non era sufficiente: perché non inserirla all’interno di un teen drama in salsa horror, nella speranza di agganciare un’inedita (si fa per dire) platea di ragazzini?
Già dalle premesse si intravede la difficile sfida che Flanagan decide di affrontare nel tentativo di adattare il suo stile (riconoscibile e tecnicamente impeccabile) al nuovo pubblico a cui si sta rivolgendo. I primi a pagarne le spese sono gli estimatori del regista statunitense, probabilmente delusi (o quantomeno interdetti) dal soggetto stesso della serie. La spiccata debolezza di quest’ultimo viene, se non altro, attenuata dalla struttura conferita alla narrazione. Questa si muove infatti su due piani, le storie “della buonanotte” narrate dai protagonisti (ispirate a loro volta ad altri racconti di Pike) e la vicenda principale che gli fa da cornice.
Uno schema stereotipato, di certo non innovativo, ma che comunque riesce a garantire un minimo di respiro al racconto, che altrimenti resterebbe ancorato a pochi prevedibili eventi. Le brevi storie incastonate all’interno di ciascun episodio sono infatti gradevoli, a loro modo utili all’approfondimento dei personaggi e in un certo senso persino educative nel riproporre in maniera “simpatica” i generi classici del cinema (dalla fantascienza, al noir, al thriller, e così via).
Un racconto annacquato tra malattia e horror
È con la trama orizzontale che i nodi vengono al pettine. Noi tutti sappiamo che la cosiddetta sospensione dell’incredulità è un elemento quasi imprescindibile per il cinema in generale, figuriamoci per quello horror. Arrivati ad un certo punto della visione di The Midnight Club sorge tuttavia spontanea una domanda: quando si trattano determinati temi fino a che punto è lecito spingersi con la fantasia? L’impressione è che si sia scelto deliberatamente di edulcorare il racconto, forse per non turbare troppo il giovane pubblico.
Qualcuno potrebbe obiettare sostenendo che lo scopo di questa opera non è mettere in atto un’indagine scientifica sulle malattie terminali, ma piuttosto utilizzare queste ultime come pretesto per raccontare storie horror. In realtà la riflessione compiuta da Flanagan è, sì, prevedibile ma anche terribilmente seria e l’atmosfera cupa che pervade la serie lo dimostra. Le condizioni di salute dei protagonisti sono elemento imprescindibile della trama, non un mero escamotage. Eppure The Midnight Club, che è per lo più sinonimo di scampagnate e chiacchiere intorno al fuoco, riduce la malattia terminale a qualche volto pallido, un paio di svenimenti e un numero relativo di scene ambientate in una saletta gestita da un infermiere. A questo si aggiunge l’elemento esoterico e orrorifico, che poi è il vero fulcro della serie, trattato in maniera sbrigativa e non particolarmente originale.
Che le maggiori pecche di The Midnight Club siano a livello di sceneggiatura è evidente, tantoché le performance dei giovani attori non bastano a dare profondità a figure che si configurano più come “tipi” che come personaggi a tutto tondo. A maggior ragione, non stupisce affatto che si sia rinunciato a conferire tridimensionalità ai personaggi adulti di contorno. Al di là del loro essere funzionali al progredire della narrazione, configurandosi a seconda dei casi come aiutanti o antagonisti, il loro contributo si ferma qui, togliendo agli interpreti (tutti volti noti ai conoscitori della filmografia di Flanagan) la possibilità di concedere al pubblico una qualsiasi forma di partecipazione emotiva.
La scelta di mescolare malattia e horror poteva rappresentare un azzardo sin dalle premesse, esponendo la miniserie al concreto rischio di cadute di stile e scivoloni, magari sgraditi a chi è particolarmente sensibile a certi temi. Flanagan, che avrebbe potuto osare di più con il materiale a sua disposizione, resta ancorato al territorio della retorica, consegnandoci un racconto annacquato, la cui morale sarebbe stata forse più chiara se si fosse deciso di spalmarlo in un numero inferiore di episodi.
Quel che resta, alla fine, è un grande disappunto: tanto negli adulti, inclini ad abbandonare un’opera indirizzata ad un target assai diverso dal loro e per di più superficiale (per non dire fastidiosa nella sua estrema assenza di tatto) nell’affrontare certe problematiche reali, dolorose, di gran lunga più spaventose di qualsiasi mostriciattolo cinematografico, quanto nei ragazzi, ancora una volta sottovalutati, condannati ad una visione consolatoria della realtà, costretti per l’ennesima volta a sorbirsi la loro dose quotidiana di politically correct e buoni sentimenti.