La meravigliosa seconda stagione di The Mandalorian, da poco disponibile nella sua interezza su Disney+, ha il pregio di mettere ancora più in evidenza le qualità della prima e, in generale, dell’operazione che porta la firma di Jon Favreau e Dave Filoni (a cui non diremo mai grazie abbastanza). Ai due autori non va solo il merito di aver creato un’ottima serie e, al contempo, personaggi così iconici da rivaleggiare con quelli “storici” della prima trilogia di George Lucas: i vari Luke Skywalker, Darth Vader, Obi-Wan Kenobi. Ma anche quello di aver pescato sapientemente, con amore e reverenza, in un Universo narrativo proliferante di spunti, ma assai ostico da gestire e alimentare.
Ne sa qualcosa lo stesso George Lucas, tornato a distanza di quasi trent’anni dalla sua prima trilogia, nei primi anni 2000, a raccontare la genesi di Anakin Skywalker e il suo passaggio al lato oscuro della forza, non riuscendo a infondere ai nuovi film lo spirito che aveva caratterizzato quelli precedenti. Difficoltà con le quali si è scontrato, in anni più recenti, anche J.J. Abrams, chiamato dalla Walt Disney a rilanciare la saga con una nuova trilogia (parallela ad altri progetti collaterali: Rogue One e Solo). Un’impresa anche in questo caso non semplice, che il regista era riuscito – parzialmente – a portare positivamente a termine con Star Wars: Il risveglio della forza, salvo poi assistere (impotente?) al rovinoso secondo episodio, e cercare di sistemare le cose con un terzo capitolo (che originariamente avrebbe dovuto essere diretto da Colin Trevorrow, poi licenziato) preoccupato soprattutto di dare un finale quantomeno dignitoso (per quanto possibile) a una trilogia dall’evoluzione sfortunata, le cui ambizioni forse sono state riposte nelle mani sbagliate (chissà quale sarebbe stato il risultato finale se il solo Abrams si fosse fatto carico della realizzazione delle tre opere).
Rispetto alla esperienze produttive sopracitate, The Mandalorian ha dato sempre la sensazione, fin dall’inizio, di voler intraprendere una strada differente; e questo nonostante sia stato realizzato in ottemperanza allo stesso fine: alimentare il brand “Star Wars”. La differenza, in questo caso, l’ha fatta probabilmente la presenza di un “esperto in materia” quale è Dave Filoni, già coinvolto nella produzione delle serie animate Star Wars: The Clone Wars e Star Wars: Rebels. Pur aspirando, quindi, ad essere filologicamente ineccepibile rispetto all’Universo narrativo di riferimento, la nuova serie Disney+ non si è chiusa in un citazionismo fine a se stesso, ma ha acquistato “forza” (è il caso dirlo) attingendo dalla mitologia della saga, raccontando però una storia che fin dalle prime battute ha dimostrato una significativa autonomia.
Quando si è scritto, poco sopra, che la seconda stagione mette in evidenza i pregi di quella che l’ha preceduta e del progetto in sé, si voleva fare riferimento proprio alla capacità di proporre una narrazione indipendente, sebbene connessa a tutto il contesto: non solo i film, ma anche le serie tv animate e persino i libri ufficiali della saga. Per fare ciò, Favreau e Filoni hanno compiuto un lavoro di progressivo avvicinamento tra le parti: la piccola storia del mandaloriano Din Djarin che incontra “il Bambino”, da una parte, e la grande Storia di quella Galassia lontana lontana che ormai da quasi mezzo secolo alimenta le fantasie di spettatori e lettori, dall’altra.
Da questo punto di vista, la prima stagione di The Mandalorian si è preoccupata in primis di raccontare le vicissitudini del protagonista, donando a quest’ultimo anche una “dimensione”, poi di delimitare i confini temporali della vicenda raccontata (tra la fine dell’Impero e l’avvento del Primo Ordine), ed infine di evitare volutamente di appesantire la narrazione con troppi riferimenti autoreferenziali (ovviamente ci sono, ma sono accuratamente dosati). Una scelta necessaria, quest’ultima, per rendere la serie appetibile non solo ai fan della saga, ma anche ai neofiti che conoscono solo parzialmente Star Wars: ad esempio, gli spettatori cinematografici che non si sono mai confrontati con la serialità e la letteratura ad essa connesse.
La seconda stagione, al contrario, lega indissolubilmente la storia di “Mando” alla mitologia dell’Universo di riferimento, ragione per cui se la serie mantiene da un lato la propria autonomia, dall’altro abbisogna – per essere compresa ed apprezzata fino in fondo – di una conoscenza più approfondita della saga e dei suoi vari spin-off. Di fronte a questa ambizione di far dialogare The Mandalorian con quanto l’ha preceduto, il rischio poteva essere quello di “chiudere” troppo la storia su se stessa, costringendo lo spettatore a uno sforzo di coordinamento tra le varie linee narrative “secondarie” che via via si intersecano con quella in questo caso principale che vede protagonista Din Djarin e il Bambino. Se è vero che la nuova stagione appare più complessa a livello drammaturgico – come è logico che sia, date anche le premesse -, è altrettanto vero che riesce comunque a mantenere un’unità narrativa encomiabile.
Qualità, quelle che abbiamo evidenziato, che fanno di The Mandalorian una serie difficilmente replicabile, non solo a livello spettacolare ma anche concettuale. Anche se il progetto di Favreau e Filoni si è al contempo (idealmente) imposto come modello da seguire per tutti gli spin-off di Star Wars che verranno realizzati nei prossimi mesi/anni: tante infatti sono le serie annunciate da Disney in occasione dell’Investor Day di qualche giorno fa.
N.B. ATTENZIONE, DA ORA IN AVANTI POSSIBILI SPOILER!
Avevamo lasciato Din Djarin (sotto la cui maschera si cela Pedro Pascal: ma come abbiamo fatto a non accorgerci di questo straordinario interprete per così tanti anni?) in fuga insieme al suo infante verdognolo, erroneamente definito per la gioia degli uffici marketing e merchandising Disney “Baby Yoda”, dopo aver battuto ma non sconfitto il perfido Moff Gideon (Giancarlo Esposito). La sua missione ha sempre il medesimo obiettivo: trovare qualcuno in grado di prendere in consegna quel piccoletto con poteri eccezionali. Possibilmente un cavaliere Jedi, alla cui “setta” lo stesso Grogu – questo il vero nome del Bambino – appartiene. Viaggiando in lungo e il largo per la Galassia – dal sabbioso Tatooine al glaciale Maldo Greis, fino alla “anfibia” Luna di Trask, e ancora oltre… – Din Djarin si troverà a fare i conti con nuovi e vecchi nemici, consapevole del fatto che la salvezza di Grogu è la strada che è destinato a percorrere.
Anziché propendere per una stagione di passaggio, ristagnante da un punto di vista narrativo, The Mandalorian sceglie di non abbandonare il suo stile secco e incisivo. È vero che, rispetto a quelle precedenti, le 8 puntate della seconda stagione si allungano un po’ (la prima dura quasi un’ora), ma non si ha mai la sensazione che tale scelta sia fine a se stessa, bensì necessaria per adeguarsi alle ambizioni narrative di questa seconda stagione (con più personaggi, più avventure, più twist). Il registro epico, già ampiamente utilizzato in precedenza, acquisisce nelle ultime puntate un’importanza sempre maggiore e si sublima in un finale emozionante che non può lasciare indifferenti, dove la storia di Din Djarin si incastra perfettamente (ora toccherà ai due autori renderne plausibile un eventuale sviluppo in una terza stagione, per altro già annunciata) nel contorto puzzle diegetico di Star Wars. Per la gioia dei fan, naturalmente.
La serie, per certi aspetti assai fedele nello spirito alla prima trilogia di Lucas, continua ad essere contraddistinta dalla commistione tra generi: si passa dal western (il primo episodio, a tale riguardo, è emblematico) al cappa e spada (anche nella sua variante orientale: il wuxia), senza dimenticare la componente comico/ironica. A livello narrativo, come anticipato, la sua struttura appare maggiormente complessa, alla luce anche delle innumerevoli “guest star” che fanno la loro comparsa lungo il corso della stagione. Ai volti noti quali Greef Karga (Carl Weathers) e Cara Dune (Gina Carano), si aggiungono almeno tre new entry di un certo peso: l’aspirante sovrana del pianeta Mandalore Bo-Katan (Katee Sackhoff), la Jedi Ahsoka Tano (Rosario Dawson) – già apparse nelle serie animate Star Wars: Rebels e Star Wars: The Clone Wars -, ed infine il grande ritorno del clone Boba Fett (Temuera Morrison, già interprete del padre Jango in Star Wars: La guerra dei cloni di Lucas).
Anche la seconda stagione prevede l’alternanza, dietro la macchina da presa, di diversi registi. In totale sono 7: oltre a Favreau, Filoni e l’attore Carl Weathers, troviamo Dallas Bryce Howard e Rick Fumuyiwa (il loro è un ritorno, dato che entrambi avevano già collaborato alla passata stagione), Robert Rodriguez e Peyton Reed. Pur essendo notevole nella sua interezza, la nuova stagione di The Mandalorian presenta almeno quattro episodi che si distinguono dagli altri e che possono essere annoverati tra i vertici dell’intera serie: il primo, Lo sceriffo, che assume le fattezze di un vero e proprio kolossal; il quinto, La Jedi, dove viene presentato (per la prima volta in live action) il personaggio di Ahsoka Tano e si apprendono importanti notizie sul conto del Bambino; ed infine il sesto e ottavo, La tragedia e Il salvataggio, che concludono in modo esaltante la stagione.
Nessuno probabilmente all’epoca del suo annuncio, avrebbe scommesso un centesimo su The Mandalorian. Eppure, a conti fatti, la serie di Favreau e Filoni si presenta – ad oggi – come il risultato qualitativamente migliore post prima trilogia di Lucas. Ad avere giovato all’operazione è stata sicuramente la scelta di discostarsi – per quanto possibile, naturalmente – dalla narrazione principale, evitando quindi di confrontarsi in maniera diretta con la “Storia” di Star Wars, e dislocando l’attenzione su elementi narrativi marginali, forse anche poco conosciuti, ma più facilmente spendibili e gestibili. Il risultato finale è davanti agli occhi di tutti: difficile trovare una serie che ha avuto negli ultimi tempi un maggiore impatto mediatico. Ci ha fatto un po’ tornare bambini, The Mandalorian. Ci ha fatto divertire, emozionare, commuovere e pure sognare. E siamo sicuri che quando finirete di vedere l’ultimo episodio di questa stagione, la vostra prima reazione verbale sarà identica alla nostra: «Mando, torna presto!» E magari aggiungerete pure: «This is the way».