Mike Flanagan, dopo una serie di dignitosi lungometraggi horror, compie il balzo di carriera definitivo, e lo fa non con un film, ma con una serie televisiva: The Haunting of Hill House – libero adattamento dell’iconico romanzo L’incubo di Hill House, scritto da Shirley Jackson nel 1959 – rappresenta l’inizio della felice collaborazione tra Flanagan e Netflix (inaugurata, comunque, già l’anno precedente con Il gioco di Gerald). La serie rappresenta la precisa volontà, da parte del regista, di scandagliare una serie di argomenti a lui cari, attraverso un meticoloso approccio tecnico (sia in termini di scrittura che di regia), tale da rendere immediatamente riconoscibile la firma di chi sta dietro alla macchina da presa. Flanagan alza di volta in volta l’asticella, dando prova di una sensibilità e di una consapevolezza crescenti, favorendo così l’affiliazione spettatoriale (garantita, tra le altre cose, anche dalla scelta di affidarsi sempre allo stesso ristretto gruppo di attori).
Nell’estate del 1992, Hugh Crain (Henry Thomas) e sua moglie Olivia (Carla Cugino) si trasferiscono ad Hill House insieme ai cinque figlioletti, con lo scopo di ristrutturare l’imponente struttura per poi rivenderla l’autunno successivo. I progetti della famiglia Crain vanno in fumo quando Hill House mostra la sua vera faccia, scatenando una serie di eventi paranormali, tanto inspiegabili quanto inquietanti. Questi raggiungeranno il loro apice nel corso di una tragica notte, destinata a segnare indelebilmente le esistenze di ciascun sopravvissuto. Ventisei anni dopo, la maledizione di Hill House torna a tormentare i membri della famiglia Crain, costringendoli ad affrontare, una volta per tutte, gli oscuri segreti e gli inconfessabili traumi del loro passato.
“Hill House, che sana non era, si ergeva di fronte alle sue colline, in tutta la sua oscurità (…). Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi. Il silenzio incombeva eterno sulle assi e le pietre di Hill House. E qualunque cosa vi si aggirasse, lo faceva sola” – recita così l’incipit di The Haunting of Hill House, portando ad un nuovo splendore le esatte parole utilizzate da Shirley Jackson nelle prime righe del suo romanzo. L’apparente fedeltà alla fonte originale è soggetta in realtà a molteplici spostamenti. Nella vicenda raccontata da Flanagan, il gruppo di protagonisti de L’incubo di Hill House subisce una metamorfosi: i ricercatori chiamati a verificare la presenza di fenomeni paranormali all’interno della magione “si trasformano” nella famiglia Crain, che si trova lì per ristrutturare la villa in vista di una futura vendita. La voce narrante che pronuncia il suggestivo discorso di apertura appartiene a Steven Crain (Michiel Huisman), il figlio maggiore, che cita le prime righe del romanzo che ha consacrato il suo successo di autore – guarda caso – di racconti horror.
In The Haunting of Hill House è dunque onnipresente il rimando all’universo letterario, cui si allude per mezzo di uno dei protagonisti, di fatto ancorando il racconto alla sua fonte extra-diegetica, quasi a voler esplicitare l’intenzione di mantenere una fedeltà di fondo al materiale narrativo originario. Materiale che viene manipolato, sì, ma con rispetto e coerenza, dando vita ad una storia nuova ma comunque legata a doppio filo al racconto di partenza. E così, i temi originari (su tutti, il carattere metaforico della casa infestata e la riflessione sulla malattia mentale) anziché venire schiacciati da modifiche fini a sé stesse, vengono impreziositi da nuove chiavi di lettura e quindi ulteriormente approfonditi. E il tempo necessario per approfondire, Mike Flanagan se lo prende tutto: l’andamento di The Haunting of Hill House è lento e volto a centellinare, con astuta parsimonia, le informazioni necessarie a chiarire i misteri che avvolgono il passato della famiglia protagonista.
La narrazione procede su due linee temporali, una ambientata nel 1992 e l’altra nel 2018, ed è costruita in modo tale da svelare poco a poco sia il drammatico evento che sconvolse i personaggi da giovani, che le meschinità e gli errori da loro commessi in età adulta. I primi cinque episodi servono prevalentemente a contestualizzare la vicenda e a descrivere l’arco di vita e il carattere di ogni figlio, ognuno a suo modo segnato da Hill House: Steven è accusato dai fratelli di aver sfruttato le intime vicende familiari per arricchirsi; Shirley (Elizabeth Reaser) è ossessionata dalla morte tanto da esser diventata responsabile di un’impresa di pompe funebri; Theo (Kate Siegel), che ha ereditato le doti paranormali del ramo materno, è diffidente e rifugge i legami stabili; Luke (Oliver Jackson-Cohen) è un ex tossico-dipendente allo sbando; Nell (Victoria Pedretti) è perseguitata dalle terribili visioni dell’infanzia. I colpi di scena e gli elementi orrorifici abbondano, ma in primo piano c’è la volontà di privilegiare l’introspezione, soffermandosi su ogni figura il tempo necessario per comprenderne a fondo i turbamenti e le motivazioni.
Una scelta coraggiosa se applicata all’horror, genere incline ad una narrazione diretta e senza fronzoli; tuttavia, il rischio di prolissità viene scongiurato da una sceneggiatura misurata, esaltata da una sequela di scelte stilistiche apparentemente azzardate ma, in realtà, funzionali a radunare tutti quei tasselli che poi si riveleranno fondamentali nella ricostruzione del quadro di insieme finale. L’episodio numero cinque (“Due temporali”) è esempio lampante dell’abilità di Flanagan nel mettere la tecnica cinematografica a servizio del racconto. Anche laddove il virtuosismo è evidente – come in questo caso, dove si assiste ad un interminabile piano-sequenza, volto ad evidenziare le tensioni esplose tra i personaggi -, esso non corrisponde mai ad una sterile esibizione di stile, ma piuttosto alla studiata volontà di coniugare coerentemente estetica e contenuto, che risultano così esaltati in egual misura.
Di certo, in The Haunting of Hill House non mancano i clichés: presenze spettrali che rievocano gli abitanti dell’Overlook Hotel, rumori sinistri, assi che scricchiolano, maniglie che ruotano da sole. Da un lato – e questo, forse, è l’unico vero difetto dell’opera – si è ecceduto in questo senso, volendo a tutti i costi calcare la mano sul classico (e, a lungo andare, prevedibile e ripetitivo) “armamentario” della casa infestata, sacrificando il senso di angoscia minuziosamente costruito nei momenti più riusciti della serie; dall’altro lato, quando sopraggiunge lo scioglimento finale, comprendiamo che il precedente indugiare sugli stereotipi del genere horror servisse a rovesciarli in un secondo momento, sottoponendoli ad una toccante reinterpretazione in chiave psicanalitico-esistenziale.
Hill House è un personaggio a tutti gli effetti e, in quanto tale, dà sfoggio tanto delle sue qualità positive quanto, soprattutto, dei suoi insidiosi difetti, che ne fanno un’antagonista talmente imprevedibile e ambigua da ridurre i suoi (ex) abitanti ad un perenne stato di soggezione, fin quasi a sopraffarli ogni volta che interagisce con loro. Ma, come ogni nemico che si rispetti, anche Hill House ha un movente, racchiuso nella storia sua e dei passati inquilini; una storia che chiede disperatamente di essere ascoltata ed, infine, compresa. Tra tutti, sarà Steven Crain a scovare la chiave di accesso al cuore oscuro della casa, dandole così modo di gettare finalmente le armi, acquietandosi nella tanto agognata tregua. Flanagan affida proprio allo scrittore il compito di guidarci nell’interpretazione dell’intera vicenda, e non può essere un caso: Steven è il più distaccato tra i fratelli e, in un certo senso, il meno succube dei capricci dell’imponente villa. Allo stesso tempo, tra tutti, è quello dotato di sensibilità creativa, di quel guizzo intuitivo fondamentale per andare oltre le apparenze e scorgere il vero fulcro del problema.
La labirintica e oscura Hill House, con i suoi ampi spazi consumati dall’usura del tempo, è sede di paure e dolori inespressi, luogo che spaventa e protegge allo stesso tempo, mentre ci crogioliamo nel risentimento, nell’angoscia, nel senso di colpa, nel rifiuto di elaborare il lutto. Tutti noi, almeno una volta, abbiamo messo piede ad Hill House; forse abbiamo provato a far finta che non esistesse, a chiuderla a chiave, a distruggerla. Ma soltanto nel momento in cui abbiamo avuto il coraggio di guardare in faccia i nostri fantasmi, lasciandoceli alle spalle senza però rinnegarli, siamo riusciti a scappare. Questo ci racconta The Haunting of Hill House, configurandosi come un saggio, lungo dieci puntate, su come debba essere costruito uno show televisivo di qualità e, soprattutto, impostando uno standard creativo che non dimenticheremo facilmente.