Elizabeth Holmes, protagonista della storia vera al centro di The Dropout, doveva aver ben presente il motto “fake it till you make it”. Determinata ad emergere nel contesto assai competitivo della Silicon Valley, alla disperata ricerca degli ingenti capitali necessari ad avviare la sua società, fondò il proprio impero sulla finzione, in un’ascesa così improbabile da racchiudere già, in sé, la clamorosa disfatta che ne sarebbe poi scaturita. D’altronde, tentare di farsi strada in una società votata all’esaltazione della performance, che non lascia margine di errore e che ripudia il concetto stesso di umiltà richiede una certa dose di spregiudicatezza e, perché no, di dissimulazione: fingere di essere già sufficientemente competenti, brillanti, di successo, nella speranza di diventarlo davvero, prima o poi. Creata da Elizabeth Meriwether (New Girl) e basata sul podcast omonimo prodotto nel 2019 da ABC News, The Dropout (composta da 8 episodi) sarà disponibile su Star, all’interno di Disney+, a partire dal 20 aprile.
L’appena diciannovenne Elizabeth Holmes (Amanda Seyfried) abbandona l’università (da qui il titolo della serie) e fonda la sua prima società, battezzandola “Theranos”. L’idea originaria sta proprio nel nome della compagnia, combinazione delle parole “terapia” e “diagnosi”: creare un dispositivo in grado di analizzare il sangue e, allo stesso tempo, fornire al paziente la terapia di cui necessita. Un progetto tanto ambizioso quanto irrealizzabile: tornando con i piedi per terra (si fa per dire), Elizabeth decide di privilegiare la sola diagnosi, progettando un sofisticato macchinario in grado di eseguire 240 tipi di analisi utilizzando una sola goccia di sangue. Grazie ad un innegabile talento affabulatorio, Elizabeth riesce ad ottenere la fiducia di ricchi investitori (i cosiddetti venture capitalists, disposti a versare ingenti somme di denaro a patto di entrare a far parte del consiglio di amministrazione di società ad alto rischio), facendo crescere il valore monetario di Theranos, che nel giro di dieci anni arriva ad essere valutata 10 miliardi di dollari.
Elizabeth e il partner Ramesh “Sunny” Balwani (Naveen Andrews), che diventano rispettivamente CEO e direttore generale dell’azienda, mentono (per anni) ai soci: la macchina che stanno sponsorizzando non funziona. La truffa, ormai sfuggita di mano ai due, assume degli inquietanti risvolti etici quando Holmes sigla un accordo con la catena di farmacie Walgreens, mettendo la malfunzionante tecnologia a disposizione di pazienti veri, che si vedono recapitare diagnosi errate. Holmes e Balwani verranno smascherati pubblicamente nel 2015, con la pubblicazione sul Wall Street Journal di un’inchiesta sulla Theranos. La società fallisce ufficialmente nel 2018. I processi per frode contro Elizabeth Holmes (già giudicata colpevole, ma ancora in attesa di sentenza) e Sunny Balwani si concluderanno soltanto nel 2022.
The Dropout è la storia di una caduta. L’ennesima che ci viene consegnata, a testimonianza di una nuova consapevolezza, evidente nella recente serialità americana; una fascinazione per il fallimento, altra faccia di una società votata al profitto e al sacrificio dei valori etici in nome di una “visione”. Una narrazione, per certi versi, desolante, che in un impeto di autocritica rileva le storture di un sistema che ci vorrebbe tutti imprenditori di noi stessi, amanti del rischio, ostili alla mediocrità dell’anonimato. Aver scelto di raccontare la parabola di Elizabeth Holmes significa compiere un passo ulteriore in questa direzione: siamo lontani, infatti, dall’universo patinato di Inventing Anna e di WeCrashed.
The Dropout ci presenta, ben nascosto dietro la convivialità fasulla degli impiegati della Theranos, un mondo cupo, asettico, crudele, dove la regola è servirsi dei più deboli – i malati – in nome di uno sterile riconoscimento sociale. Si va, cioè, oltre la mera truffa economica: The Dropout mette in scena l’estrema frontiera della spudoratezza, un inno alla perdita della moralità, indirettamente avallata da un sistema sanitario inadeguato ad assicurare persino i diritti più basilari. Quando farsi le analisi del sangue equivale, letteralmente, a “dissanguarsi”, si può arrivare persino a dare credito ad un personaggio come Elizabeth Holmes. Emblema dell’apparenza priva di sostanza, detentrice di un sapere misterioso e quindi “magico”, in lei viene riposta la speranza di un miracolo: una sanità economica, a disposizione di tutti, nella farmacia sotto casa. Tali implicazioni, pur costituendo l’ossatura della serie, vengono suggerite tra le righe, lasciando lo spettatore libero di trarre da solo le proprie conclusioni.
L’intelligenza di The Dropout, difatti, risiede proprio nella scrittura, che delinea una figura talmente bizzarra da risultare quasi incredibile, simbolo vivente di un contesto storico e sociale impazzito, dove scambiare l’impostore di turno per nuova promessa hi-tech, ricoprendolo di denaro e onorificenze, non è poi così improbabile. Viene così costruita, episodio dopo episodio, l’antieroina per eccellenza: la ragazza ambiziosa che incontriamo all’inizio, mossa da un desiderio di prestigio che potrebbe essere scambiato per predisposizione caratteriale a “fare grandi cose”, rivela ben presto la sua natura arrivista e cinica. Elizabeth, che è dedita ad un successo vago ed effimero, si rifiuta di ascoltare i consigli di chi ne sa più di lei, impaziente di bruciare gli step necessari a guadagnarsi una credibilità fondata sulla conoscenza e non su slogan e frasi fatte.
La prova di Amanda Seyfried è più che riuscita: l’attrice scompare sotto le sembianze di una figura affetta da una determinazione malsana, che la spinge a calpestare chiunque provi ad ostacolare il suo megalomane sogno di gloria. La Seyfried digrigna i denti, sbarra gli occhi, modifica l’intonazione della voce, assumendo la maschera di un personaggio dell’orrore, che riversa sugli altri una malvagità travestita da candida ingenuità. Le fanno da contraltare numerosi volti noti al grande pubblico televisivo, che contribuiscono a vivacizzare il ritmo della narrazione con delle performance magnetiche, fortemente caratterizzate, senza le quali il racconto di The Dropout risulterebbe certamente meno incisivo.
A Naveen Andrews, vero padrone della scena insieme alla Seyfried, va riconosciuto il merito di aver vestito alla perfezione i panni di Sunny Balwani, che entra di diritto nel gotha dei personaggi più sgradevoli e odiosi degli ultimi anni. Prepotente in pubblico e succube in privato, Balwani simboleggia, insieme alla partner, un’avidità fine a sé stessa, perseguita con una tenacia cieca che, oltre a sfociare spesso e volentieri in pura stupidità, tende a recidere qualsiasi contatto con la realtà. Sono gli attori più anziani, tuttavia, a rappresentare il valore aggiunto della serie. Non c’è niente da fare, William H. Macy, Sam Waterston e Stephen Fry tendono, inevitabilmente, ad oscurare i (comunque bravi) colleghi più giovani. I primi due interpretano, rispettivamente, Richard Fuisz e George Shultz: l’acerrimo nemico e il più prestigioso alleato di Elizabeth, pur non incontrandosi mai, determinano ognuno a suo modo il precipitare degli eventi, garantendo i momenti più tesi e – per certi versi – godibili di The Dropout.
Ma è soprattutto per mezzo della tragica figura di Ian Gibbons che si realizza lo scontro impari tra scienza e ignoranza (e quindi tra contenuto e apparenza) che costituisce il conflitto principale del racconto. Forte di un sapere ignoto alla protagonista, il personaggio interpretato da Stephen Fry è impreparato anche soltanto a concepire la possibilità di una strumentalizzazione del sapere scientifico in nome di vuoti interessi economici. Condividiamo lo spaesamento di quest’uomo mite e onesto, la cui bontà si traduce in un’ingenuità autodistruttiva, inadeguata a far fronte all’ipocrisia di una manciata di uomini d’affari disposti a tutto pur di perseguire il proprio tornaconto e, soprattutto, alla prosopopea di una ragazza giovane e brillante, candidata ideale a quel passaggio di testimone agognato da qualsiasi scienziato anziano e ormai prossimo alla pensione.
Questa dinamica contribuisce, con l’incedere della visione, a generare un crescente sentimento di disagio, dato non solo dall’assenza di scrupoli dei personaggi principali, ma anche dal contesto che ha favorito il loro successo. Un capitalismo sfrenato personificato da una schiera di ricchi (e spesso ignoranti) imprenditori, propensi ad investire – con sconcertante nonchalanche – decine di milioni di dollari in una start-up di cui conoscono solo vagamente il funzionamento. Si assiste, cioè, all’esercizio di uno strapotere economico e politico, noncurante degli strati più poveri della società, rassicurato dal superamento (solo di facciata) del tabù che esclude le donne dalle posizioni di potere. In altre parole, il solo fatto che la CEO di Theranos sia una donna basta a garantire una parvenza di credibilità al progetto, permettendo agli uomini non soltanto di dormire sonni tranquilli, ma anche di autoproclamarsi paladini del progresso sociale. E intanto, mentre Elizabeth distorce a proprio vantaggio una narrazione già di per sé stereotipata, autoconvincendosi di essere l’erede di Steve Jobs solo per aver ideato un macchinario esteticamente allettante, i poveracci continuano ad ammalarsi e a cercare di curarsi senza cadere sul lastrico.
The Dropout, pur non aggiungendo nulla ad una vicenda arcinota, ha il merito di inserirla all’interno di un racconto di ampio respiro, dando modo allo spettatore di riflettere sulle condizioni che hanno permesso il verificarsi dei fatti in questione. La figura di Elizabeth Holmes non viene né umanizzata né demonizzata, ma piuttosto descritta per quello che è stata e per ciò che ha rappresentato: il trionfo della superficialità sulla razionalità scientifica, annientata dalla stupidità e dall’ignoranza. Certo, sapere che i colpevoli sono stati scoperti genera un’attesa che, unita al ritmo serrato della narrazione, rende impossibile interrompere la visione. Tuttavia, l’eventuale soddisfazione finale non prevede consolazione, ma piuttosto un fastidioso senso di impotenza e l’amara consapevolezza che, da un momento all’altro, questa ignobile partita a scacchi tra deboli e potenti potrebbe avere nuovamente luogo.