sabato, Marzo 22, 2025
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Robbie Williams, recensione della docu-serie Netflix sulla celebre popstar

La recensione di Robbie Williams, docu-serie in 4 episodi dedicata alla celebre popstar inglese. Disponibile su Netflix.

Il concerto è uno dei riti collettivi più potenti, forse il più coinvolgente in assoluto: centinaia di persone si radunano in un unico luogo, ognuna con la sua storia ma tutte accomunate dall’amore per quella musica, con la voglia di celebrare l’irripetibilità di un momento straordinario insieme al loro cantante preferito. Ma come ci si sente a stare “dall’altra parte”, quella del performer? Robbie Williams, la docu-serie dedicata al celebre musicista e disponibile dallo scorso 8 novembre su Netflix, tenta (tra le altre cose) di rispondere a questa domanda.

È l’agosto del 2003 quando il figlio prediletto di Stoke-on-Trent sale sul prestigioso palco di Knebworth, di fronte ad un pubblico di 375.000 persone. Quello che lui stesso definisce come l’apice della sua carriera sembra elevare il protagonista allo status di rock-star: non meno di Freddie Mercury o di Bruce Springsteen, Robbie Williams tiene in pugno la folla, col piglio del cantautore di talento che pure ha fatto dell’intrattenimento la sua bandiera. Let me entertain you, lasciate che vi intrattenga, io che sono uno showman nato, è non a caso uno dei suoi brani più noti e rappresentativi; una dichiarazione di intenti con cui il cantante si ostina ad aprire la sua scaletta e quindi un’assunzione di responsabilità, una promessa solenne al pubblico.

Robbie Williams stesso sottolinea a più riprese la sensazione inebriante che scuote l’artista sul palcoscenico, un novello pifferaio magico investito del potere di catturare la completa attenzione di migliaia di persone. Un potere che implica un prezzo da pagare: la terrificante paura di non essere all’altezza e quindi di non soddisfare le aspettative altrui, proprio nell’esatto momento in cui tutti gli occhi sono puntati su di te. Ed ecco che Robbie Williams mette in scena quello che potremmo definire il lato oscuro del successo, lo stesso che ha trascinato nel baratro innumerevoli artisti, spesso con conseguenze tragiche ed irrimediabili.

Ma se ci risulta facile associare Amy Winehouse, Chris Cornell, Chester Bennington o Kurt Cobain (giusto per citarne alcuni) alle rispettive spirali di autodistruzione e sofferenza, lo stesso non può dirsi per Robbie Williams, che è un personaggio all’apparenza “risolto”, immune dai tormenti, dedito ad un genere – il pop – fondamentalmente leggero e positivo. Niente di più sbagliato, poiché ciò che accomuna tutti questi artisti, nessuno escluso, sono la sensibilità e quella particolare predisposizione ad usare l’opera d’arte come strumento per mettersi a nudo, dandosi letteralmente in pasto ad un pubblico non sempre in grado di intravedere l’essere umano dietro al personaggio.

Una seduta psicoterapica con il pubblico

In questo senso, la docu-serie in 4 episodi diretta da Joe Pearlman (già dietro la macchina da presa nel recente lungometraggio su Lewis Capaldi), prodotta dalla RSA Films di Ridley Scott e da Asif Kapadia (regista, tra le altre cose, dell’ottimo docu-film dedicato alla compianta Amy Winehouse) adotta una narrazione particolarmente efficace: messo di fronte ad una serie di filmati inediti, Robbie Williams si racconta, ripercorrendo una carriera folgorante, costellata da grandi successi e da rovinose cadute e indelebilmente segnata dalla lotta contro depressione e dipendenza. Si assiste così una sorta di seduta psicoterapica dove al posto dello psicologo c’è il pubblico, al quale il paziente-cantante si rivolge dismettendo tutte le sue maschere e passando in rassegna con toccante umanità e palpabile disagio i momenti più oscuri del suo percorso.

Siamo perciò lontani dal ritratto agiografico o dalla piatta celebrazione dell’artista ad uso e consumo dei fan, sebbene sia inevitabile chiedersi quanto di spontaneo ci sia in questo racconto così accorato e all’apparenza improvvisato. Un aspetto, questo, in fin dei conti irrilevante, visto che stiamo comunque parlando dello showman per eccellenza: Robbie Williams ci sta intrattenendo, stavolta mettendo a nudo sé stesso.

Sono stata insieme a Rob per tre anni, prima di conoscere Robbie. Robbie è una persona completamente diversa”, dice Ayda Field, colei che sarebbe diventata la moglie di Williams. La docu-serie, nel suo riflettere sull’enorme divario che intercorre tra uomo e personaggio, ci permette di intravedere “Rob” e sta proprio qui la sua forza: chiunque di noi, persone comuni, può trovare qualcosa di sé in questa figura così ossessionata dal giudizio degli altri, così dura con sé stessa, così incapace di riconoscere i propri meriti e costantemente in balìa della sindrome dell’impostore. Il pietoso spettacolo dell’esaurimento nervoso del cantante appare, per questo, ancora più spiazzante.

Quando sale sul palcoscenico di Leeds, tappa inglese del Close Encounters Tour del 2006, Robbie Williams è un uomo distrutto e alla mercé dei propri demoni. Travolto dalle critiche al vetriolo dei tabloid inglesi e avvolto da un’oscurità cupa e senza via di uscita, Williams è costretto ad esibirsi di fronte ad una platea sterminata. Divorato dal terrore e con lo sguardo perso nel vuoto, il cantante intona la sua Angels con voce rotta e tremante: la dolce preghiera rivolta ad una presenza extra-terrena che ci protegga durante le avversità diventa un grido di aiuto disperato e struggente. Questa débâcle di un uomo solo, eppure circondato da milioni di fan ignari del dramma che si sta consumando di fronte ai loro occhi, è rappresentazione sconvolgente della vacuità di fama e successo di fronte ad un animo sensibile che si spezza.

Qualche anno prima, lo stesso Williams cantava I’m Gonna be Nobody Someday, dichiarando il suo sogno di normalità: una famiglia, una casa, una rassicurante quotidianità. L’artista è ben conscio che un completo ritorno all’anonimato sarebbe impossibile per uno come lui; lanciato nello show business ad appena 16 anni, inserito di forza nel mondo degli adulti, privato della possibilità di affrontare in maniera graduale e sana le proprie insicurezze, Robbie Williams è una contraddizione vivente, diviso com’è tra esibizionismo e voglia di nascondersi.

Un palco ci separa, ma siamo tutti esseri umani

La soluzione arriverà nel 2007, grazie all’incontro con Ayda Field e alla decisione di disintossicarsi, interrompendo una volta per tutte il circolo vizioso della dipendenza. La docu-serie pone l’accento su questo incontro decisivo, che avrebbe condotto il cantante a realizzare finalmente quella che anni prima sembrava un’utopia: una famiglia, una casa, una rassicurante quotidianità. Joe Pearlman indugia su questo aspetto sentimentale e lo fa in una maniera che potrebbe apparire persino smielata agli occhi di qualcuno, con il ricorso ossessivo al termine “anima gemella”. Tuttavia, si tratta dell’unico lieto fine che auspicavamo, specialmente per uno che anni prima, ancora in preda alla tossicodipendenza, cantava I just wanna feel real love/feel the home that I live in/’cause I got too much life/running through my veins/going to waste.

Feel è un tormentone che abbiamo ascoltato e riascoltato, inconsapevoli del dolore nascosto dietro a quella voce calda e sicura. Eppure, ognuno di noi ha trovato qualcosa di sé in quel brano così riconoscibile e trascinante, in una comunione istintiva con il musicista che lo ha concepito. Una condivisione che lo stesso Robbie Williams ammette, lui che si dà così tanto agli spettatori e che così tanto prende dal proprio pubblico, quello stesso pubblico che – afferma lui stesso – lo “ha protetto per anni” e al quale forse si sta proprio rivolgendo, come ad una sorta di padre putativo, nella sua Come Undone (If I ever hurt you your revenge will be so sweet/because I’m scum/and I’m your son/I come undone).

Riferendosi alla propria storia, Robbie Williams parla di “miracolo” e forse non sbaglia, visto che quest’opera avrebbe potuto essere l’ennesima a raccontare la vicenda di uno che purtroppo non ce l’ha fatta. Grati per questo viaggio, ne usciamo più consapevoli. Anche noi abbiamo qualche responsabilità nei confronti degli artisti che tanto amiamo: un palco ci separa, ma siamo tutti esseri umani, allo stesso modo. Dopo averci accolto a casa sua, Rob si chiude la porta alle spalle e, con una maglia scintillante, si prepara a salire sul palco, che è la dimora di Robbie. Ancora una volta chiederà di intrattenerci e ancora una volta noi lo asseconderemo, pronti ad arrenderci al potere salvifico e liberatorio della musica.

Guarda il trailer ufficiale di Robbie Williams

GIUDIZIO COMPLESSIVO

La docu-serie, nel suo riflettere sull’enorme divario che intercorre tra uomo e personaggio, ci permette di intravedere l'essere umano e sta proprio qui la sua forza: chiunque di noi, persone comuni, può trovare qualcosa di sé in questa figura così ossessionata dal giudizio degli altri, così dura con sé stessa, così incapace di riconoscere i propri meriti e costantemente in balìa della sindrome dell’impostore.
Annalivia Arrighi
Annalivia Arrighi
Appassionata di cinema americano e rock ‘n’ roll | Film del cuore: Mystic River | Il più grande regista: Martin Scorsese | Attore preferito: due, Colin Farrell e Sean Penn | La citazione più bella: “Questo non è volare! questo è cadere con stile!” (Toy Story)

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