Non è facile raccontare una generazione, trasformandosi con leggerezza in un manifesto pop(ular), mai banale eppure così collettivo, intimo e frutto di un immaginario di massa. E non è facile se, a maggior ragione, non si sceglie di narrare i fatti e i misfatti, le cadute e le risalite della Generazione Z o dei Boomers ma i Millennials, quell’ampia – e variegata – porzione di umanità che va dagli anni ’80 alla metà dei ’90, che ha assistito impotente alla fine del Secolo Breve, all’ascesa della rivoluzione digitale semplicemente adattandosi, come camaleonti in attesa di una buona occasione per poter riemergere dalla loro atavica condizione esistenziale.
Perché il profilo dei trenta-quarantenni di oggi è più o meno lo stesso per tutti e immortala una generazione spezzata, letteralmente definita “perduta” (come quella di Hemingway, Fitzgerald e Miller, sullo sfondo dell’Europa degli anni a cavallo tra le due guerre mondiali); una generazione che lotta per trovare il proprio posto nel mondo nonostante le difficoltà e le idiosincrasie, che li allontanano naturaliter dalle responsabilità e ritardano la loro entrata nell’età adulta, costringendoli a muoversi in bilico su un filo di seta, come provetti equilibristi. E pochi prodotti mainstream, cinematografici o televisivi, sono stati in grado di raccontare le ansie e le speranze di un’intera generazione; ancora una volta sono i The Jackal, collettivo comico nato nel 2005, a dimostrare la loro capacità di saper incarnare tutto questo attraverso un progetto mirato e ben riuscito, erede naturale dei brevi video targati YouTube che li hanno resi celebri.
Così accadeva con Generazione 56K (diretta da Francesco Ebbasta, uno dei fondatori, con la partecipazione di altri volti celebri) e nello stesso modo succede in Pesci piccoli – Un’agenzia. Molte idee. Poco budget, prima serie originale targata Prime Video, disponibile in sei episodi dall’8 giugno e che schiera dietro la macchina da presa lo stesso Ebbasta insieme ai suoi colleghi (e amici) del cast Ciro Priello, Fabio Balsamo, Aurora Leone, Gianlcua Fru e la new entry Martina Tinnirello, al suo debutto. Premessa necessaria: nell’epoca delle star di TikTok e delle vite di successo incorniciate dai social, cosa c’è di bello nel fare ogni giorno una vita normale? E se questa vita normale si svolgesse in una piccola agenzia di comunicazione social? Ciro, Fabio, Fru e Aurora sono amici e colleghi immersi nel sottobosco digital fatto di brand provinciali sfigati e piccoli influencer tragicomici, ma anche popolato di amicizia, flirt tra colleghi e riti di gruppo. L’arrivo di una nuova manager declassata ma decisa a dimostrare il suo valore porterà un’ondata di novità e insegnerà loro che anche un’esistenza normale, senza successi garantiti da milioni di follower, nasconde qualcosa di prezioso se hai gli amici giusti.
La bellezza – e l’originalità – di Pesci piccoli si annida nel carattere testardo, indipendente, geniale e stralunato del suo DNA che appartiene puramente ai The Jackal, al loro universo creativo e ad un immaginario di riferimento ben specifico e riconoscibile, che ha sancito prima la loro fortuna sul web e adesso la fioritura televisiva, nel grande prato (verde) del mainstream generalista. Dopo esperimenti in solitaria, programmi e pubblicità, il gruppo comico si riunisce al gran completo unendo le forze e la fantasia per concepire un’idea semplice ma dirompente, incentrata su un mondo misconosciuto ai più perché legato ad un mercato in continuo divenire: quello del web, dei content creator, degli influencer da assoldare per promuovere un prodotto e delle agenzie di comunicazione social che iniziano a colonizzare gli spazi del grande pubblico, che ancora ignora la loro esistenza. C’è un sottobosco lavorativo, stratificato e complesso, vitale e pulsante là fuori: come suggeriva Fox Mulder in X-Files, serviva qualcuno che lo mostrasse davvero per crederci (finalmente).
Un acquario da riempire con le proiezioni emotive
Pesci piccoli è quindi il racconto dei pesci – dalla taglia ristretta – che popolano un minuto acquario della provincia campana, forse troppo stretto e periferico (rispetto al mondo) per contenere i loro sogni, i desideri che nutrono e la creatività che quest’ultimi accendono; eppure sono diventati una famiglia, trasformando l’ufficio nel centro delle loro esistenze spesso altalenanti e complesse, lontane da una trascurabile felicità. L’incursione di un elemento esterno non farà saltare gli equilibri, anzi, ne creerà prontamente di nuovi, riscrivendo le traiettorie emotive che muovono i singoli personaggi, sullo sfondo di trame orizzontali che si intersecano, focalizzando di volta in volta l’attenzione su un singolo lavoro da portare a termine, tra grottesche situazioni.
Dalla commedia tipicamente definita all’italiana i The Jackal riprendono quella passione per i caratteri e i personaggi: macchiette sopra le righe in apparenza, in realtà tutti i caratteri rivelano progressivamente la propria sfaccettata umanità, nonostante la tirannia del “tempo piccolo” che comprime archi narrativi (e di trasformazione) nella durata convenzionale di un singolo episodio; ogni puntata riprende, di certo, il filo di un discorso iniziato e non ancora concluso, forse appena accennato per costituire un ricco (e lungo) set-up che dovrà trainare delle ipotetiche prossime stagioni. Trame verticali e orizzontali che si intersecano, ma anche tre linee narrative pronte ad intrecciarsi richiamando alla mente il prototipo della serie Community, solo uno dei tanti modelli narrativi evocati nel corso dei sei episodi; insieme c’è tutto quel mondo indoor televisivo che racconta la vita d’ufficio, immortalato come apoteosi dal mitico The Office.
Un nome, una garanzia: la serie più premiata e oggetto di remake (in tutto il mondo) fa da egida alla produzione originale italiana, viene rincorsa in più di un episodio (e così l’intero format tradizionale da sit-com) fino a trovare uno stile personale e atipico che mescola insieme tutti questi elementi – il concept da situation comedy, l’ambientazione indoor e le dinamiche da ufficio, le eccentricità dei singoli caratteri con una comicità da visual comedy – tanto da creare, infine, uno stile personale che racconta, tra battute e gag, le contraddizioni di un’intera generazione, spesso scacco della solitudine e di una precarietà che spingono a formare dei legami saldi e familiari… perfino nei posti più improbabili, come sul lavoro. Ogni personaggio incarna un prototipo, un carattere specifico specchio di un intero mondo in bilico tra ambizioni, aspettative da rispettare ed esistenze da riconquistare, complice un dinamica più “slow” che permette di rallentare, focalizzando la propria attenzione sulle persone prima ancora che sul lavoro (o sul prodotto finale).
Pesci piccoli riesce così a crescere nell’arco di sei episodi, trovando una propria voce specifica – e un timbro riconoscibile – a partire dal terzo, segnando uno scarto notevole nell’offerta narrativa: pur raccontando un “dietro le quinte” di un mondo baciato dalla calda luce dei riflettori del successo (esattamente come accadeva nel remake Call My Agent – Italia), costruisce però un microcosmo a sé, un acquario da riempire con le proiezioni emotive di un’intera generazione che ha già riso con lo storytelling agrodolce, targato The Jackal, sul web, tra raffigurazione di un mondo del lavoro – che non c’è – e la narrazione di una Napoli immancabile e preponderante, fil rouge di un progetto che vuole raccontarne un altro lato nascosto, meno mainstream e banale, ma decisamente più personale ed epidermico. In un mondo di comici che passano dal piccolo al grande schermo (e viceversa, spesso fallendo), i The Jackal con Pesci piccoli sono riusciti a non perdere loro stessi, mantenendo salda la rotta verso qualcosa di personale, che nasce dalle loro esperienze particolari di vita, eppure si rivela mai così universale nell’impatto sull’immaginario collettivo.