Disponibile su Netflix a partire dal 10 agosto, Painkiller è una miniserie drammatica in sei episodi creata da Micah Fitzerman-Blue e Noah Harpster (Transparent, Un amico straordinario). Basata sull’articolo “The Family That Built an Empire on Pain”, scritto da Patrick Radden Keefe per il New Yorker, e sul libro inchiesta “Pain Killer: An Empire of Deceit and the Origin of America’s Opioid Epidemic” di Barry Meier, la serie gira intorno alle malefatte della Purdue Pharma, azienda farmaceutica responsabile di aver immesso sul mercato, tra menzogne e corruzione, l’antidolorifico OxyContin, principale causa, negli USA, della piaga della dipendenza da ossicodone.
Mente dietro alla spregevole e lucrativa operazione è il dr. Richard Sackler (Matthew Broderick), personaggio già co-protagonista della miniserie Disney+ Dopesick – Dichiarazione di dipendenza (qui interpretato da Michael Stuhlbarg) e villain quasi invisibile del documentario, vincitore del Leone d’oro, Tutta la bellezza e il dolore. Magnate dell’industria farmaceutica che ha costruito il suo impero, basato sul dolore e sulla dipendenza, partendo dall’eredità dello zio Arthur Sackler (Clark Gregg), tra i fautori, negli anni ’60, del successo di farmaci come il Valium. Una figura che, anche dopo la sua dipartita, ha continuato ad essere il punto di riferimento di Richard; nella serie, il dottore ha continui dibattiti immaginari con il suo defunto mentore, una sorta di spirito guida che ricorda l’Elvis di Una vita al massimo, ma meno simpatico e più giudicante.
Oltre ad un villain disprezzabile, quello di cui una storia ha bisogno è un eroe per cui tifare. Painkiller trova la sua eroina in Edie Flowers (Uzo Aduba), donna afroamericana, investigatrice dell’ufficio del procuratore del West Virginia. Un personaggio che, al contrario di Sackler, è inventato; un mix di diverse figure che hanno contribuito al caso contro la Purdue Pharma (come specificato dai veri parenti di vittime dell’OxyContin prima di ogni episodio, la serie è basata su fatti reali, ma si prende qualche libertà per scopi drammatici). Edie è una fiera e coscienziosa impiegata pubblica, che crede nel suo lavoro, fermamente convinta che la burocrazia e le regole siano i pilastri fondanti della civiltà. La prima ad accorgersi, nella finzione filmica, della pericolosità del farmaco oppiaceo, memore dell’epidemia di crack che, negli anni ’80, ha distrutto la sua famiglia.

Imitare lo stile ammiccante di Adam McKay
Secondo personaggio d’invenzione, funzionale per introdurci alla realtà dietro alla diffusione dell’OxyContin, è Shannon Schaeffer (West Duchovny, figlia dello “Spettrale” David). Uno dei segreti dietro il terribile successo di Purdue Pharma nello spingere i medici a prescrivere il loro prodotto, oltre naturalmente agli incentivi economici, è stato l’impiego di giovani e avvenenti venditrici; un plotone di ragazze, poco più che adolescenti, abbagliate dal successo, spesso inconsapevolmente pericolose. La bionda Shannon è la nostra “Alice” e dietro lo specchio non troverà un mondo fantastico, ma una realtà fatta di squallore e corruzione, con festini aziendali degni degli eccessi di The Wolf of Wall Street.
“Gli oppioidi non distruggono la vita solo di che ne abusa, ma distruggono la vita di chiunque gli orbiti intorno”. A dimostrazione di questa frase, pronunciata da Edie, Painkiller presenta il caso di Glen Kryger (Taylor Kitsch), avatar fittizio in rappresentanza delle tante vittime della dipendenza da OxyContin. Caduto tra le terribili grinfie dell’assuefazione da farmaci oppioidi, l’uomo distruggerà il rapporto con la sua famiglia, trovando una tragica fine.
Le vicende raccontante da Painkiller sono, sulla carta, interessanti e soprattutto importanti; qui, purtroppo, sono presentante in maniera insipida e poco originale. La miniserie cerca di rifarsi allo stile ammiccante e sopra le righe dei fortunati film di Adam McKay (La grande scommessa), non riuscendo mai a eguagliarne le vette di brillantezza. Non è un caso che dietro la macchina da presa dei sei episodi ci sia Peter Berg, professionista che ha costruito la sua carriera come regista-imitatore di colleghi ben più noti (sono suoi film come The Kingdom, dove scimmiotta Michael Mann, e Battleship, dove cerca di riprendere lo stile ipertrofico di Michael Bay).
Il risultato non è pessimo, ma sicuramente una copia sbiadita del modello originale, non all’altezza dell’urgenza dell’argomento, oltretutto già trattato in precedenza, e in modo più efficace, sia dal documentario Tutta la bellezza e il dolore che, in formato fiction, da Dopesick.