È disponibile da oggi 7 dicembre su Netflix la serie natalizia originale Odio il Natale, alternativa Made in Italy del colosso dello streaming alla miriade di commedie romantiche statunitensi e britanniche a tema che, soprattutto nel periodo più magico dell’anno, vengono riscoperte sempre con un certo interesse da parte del pubblico, desideroso di abbandonarsi al racconto di storie non troppo impegnative, infarcite di buoni sentimenti, da gustarsi coccolati dalle luci dell’albero, armati di tisana calda e plaid confortevole.
Suddivisa in 6 episodi della durata di 30 minuti ciascuno, Odio il Natale racconta la storia di Gianna (interpretata da Pilar Fogliati), un’infermiera trentenne che non sembra amare particolarmente le festività natalizie. E questo a causa della sua famiglia, che vorrebbe vederla fidanzata, magari in procinto di mettere su una famiglia tutta sua. Esasperata dalle continue pressioni dei genitori e delle amiche, Gianna alla fine cede e decide di cimentarsi in un’impresa apparentemente impossibile, almeno per lei: trovare un ragazzo prima di Natale e portalo dai suoi in occasione della cena della vigilia. Avrà solo 24 giorni per riuscirsi. Riuscirà nella “romantica” impresa?
Adattamento nostrano della serie norvegese Natale con uno sconosciuto (disponibile sempre su Netflix), Odio il Natale sfrutta i classici tropi della romantic comedy per cercare di dare forma e sostanza ad un racconto incentrato essenzialmente sulle difficoltà dei trentenni di oggi, tormentati dalla ricerca di un loro posto nel modo, dal desiderio di sentirsi realizzati sia professionalmente che sentimentalmente, dalla costante pressione esercitata su di loro dalle persone che li circondano, subito pronte a mettere bocca sulle vita altrui, come se esistesse una vera data di scadenza o ci fossero una serie di tappe obbligate che devono essere per forza raggiunte entro una certa età.
Una serie troppo didascalica e poco coinvolgente
La serie, dunque, si rivolge ad un tipo di target estremamente preciso, e tutte le dinamiche che tira in ballo vengono filtrate non solo attraverso le azioni, ma anche attraverso le parole e i pensieri di Gianna, che in determinati momenti si ritrova ad infrangere la quarta parete e a rivolgersi direttamente allo spettatore, diventando ai suoi occhi quasi una potenziale amica, qualcuno che non si fa poi troppa fatica a comprendere e in cui riconoscersi e identificarsi con particolare immediatezza.
Pilar Fogliati è sicuramente il fiore all’occhiello dell’intero progetto: l’attrice – vista lo scorso marzo al cinema in Corro da te e che, a nostro avviso, meriterebbe molto più spazio sul grande schermo rispetto a quanto gliene concede la televisione – riesce con la sua brillante interpretazione a dare il giusto peso a tutte le sfumature del carattere della sua Gianna, dalle sue insicurezze alle sue contraddizioni, dalle sue fragilità e dai suoi difetti alle sue “doti speciali” (che emergono soprattutto quando si trova a contatto con i pazienti dell’ospedale in cui lavora). Altra peculiarità della serie è indubbiamente la sua location: le disavventure di Gianna sono ambiente a Chioggia, comune della città di Venezia, che si rivela la cornice perfetta – romantica, calda e accogliente – per le infinite peripezie amorose (e non solo) della nostra protagonista, sicuramente inusuale se si pensa ai tradizionali scenari delle storie italiane sul grande e piccolo schermo.
Dove Odio il Natale fallisce, però, è nella prevedibilità non solo degli snodi narrativi ma anche della tanto decantata evoluzione a cui dovrebbe andare incontro non solo la vita di Gianna, ma anche quella di tutti i personaggi che le gravitano attorno, a cominciare dalle figure genitoriali, di cui ne viene messa in discussione l’idealizzazione e la fallibilità. Alla fine della fiera, la serie diretta dai CRIC (al secolo Davide Mardegan e Clemente De Muro) e scritta da Elena Bucaccio, Viola Rispoli e Silvia Leuzzi, vuole ricordarci che siamo tutti esseri imperfetti bisognosi di raggiungere o meno i nostri obiettivi secondo le nostre personali tempistiche e che l’incapacità di sbagliare, di non commettere errori può comunque rappresentare un’occasione di vittoria, ma lo fa in modo fin troppo didascalico e davvero poco coinvolgente, senza alcun guizzo realmente innovativo né in termini di forma né di contenuto.