Monterossi – La serie è il titolo del nuovo progetto targato Amazon Original che consiste in un adattamento – per il piccolo schermo – dei romanzi del giornalista e scrittore Alessandro Robecchi. Due gialli editi da Sellerio (Questa non è una canzone d’amore, Di rabbia e di vento) divisi in due tranche da tre episodi, per un totale di sei che completano la prima stagione di questo atipico crime da subito disponibile su Amazon Prime Video, a partire dal 17 gennaio. A prestare volto, voce, ricordi e malinconie al protagonista Carlo Monterossi (come ha confessato nel corso della nostra videointervista) troviamo l’attore Fabrizio Bentivoglio, che divide lo schermo insieme a Martina Sammarco, Luca Nucera, Carla Signoris, Tommaso Ragno, Donatella Finocchiaro e Diego Ribon.
Una sera come tante, l’autore televisivo Carlo Monterossi viene disturbato dal suono del videocitofono mentre è intento a sorseggiare un whisky, ascoltando Bob Dylan. Ma alla porta, invece di un fattorino, trova un tizio col volto coperto e una pistola: da quell’incontro con la morte viene salvato, per caso, dal destino che lo spinge ad indagare per scoprire le cause di quell’insolita aggressione. Così, insieme ai fidi assistenti (e autori) Oscar e Nadia inizia a raccogliere indizi e prove, avvicinandosi sempre di più ad una strana verità. Coadiuvato dalla presenza della polizia, Monterossi si trasformerà ben presto in un detective per caso, un po’ per rabbia e un po’ per curiosità umana, sempre in bilico tra ironica indolenza e struggimento blues, ma costantemente immortalato in una titanica ricerca della verità.
Monterossi – La serie cerca di ritagliarsi un proprio spazio privilegiato nel mare magnum del genere crime-giallo, da sempre portatore di grandi attenzioni e successi nel mercato audiovisivo nostrano; ma per distinguersi dai tanti commissari, procuratori et similia che popolano narrativa, tv e piattaforme, questo prodotto sceglie la via di una premessa atipica (ereditata direttamente dai romanzi), creando una frattura narrativa grazie ad un What If…? potente: cosa succederebbe se, ad indagare su crimini e misfatti locali, non fosse un membro delle forze dell’ordine o comunque un furbo segugio, ma un cittadino comune o addirittura… un autore di televisione trash?
Una premessa debordante e insolita, che il regista Roan Johnson (già dietro la macchina da presa della serie I delitti del BarLume e della black comedy State a casa) ha colto al volo sfruttandone l’infinito potenziale. Il risultato è una serie già atipica nel taglio, per via della scelta di adattare due romanzi sfruttando il potenziale drammaturgico di tre episodi per volta. Una scelta che permette allo spettatore di affezionarsi in modo progressivo ai protagonisti, seguendoli nel corso delle loro improbabili avventure sullo sfondo di una Milano moderna ma che conserva, ancora, quella malinconia struggente di certe canzoni e del ricordo di una Milano da bere rutilante e festaiola, mondana e “sulla breccia”. Una città che è parte integrante del carattere di Monterossi, che fa da cornice ai pensieri e alle emozioni di un autore che non potrebbe esistere altrimenti, se non all’ombra della Madonnina del Duomo.
La serie ha il pregio di non inseguire trame elaborate o intrecci complessi, ma di potersi soffermare con profondità intellettuale sulla psicologia dei suoi personaggi, affiancando progressivamente ogni tassello delle loro storie (e personalità) per ricostruirne il passato e il presente, permettendo così al pubblico di affezionarsi e di assistere, divertiti, al loro approccio improbabile nei confronti di avventure pericolose, popolate da personaggi misteriosi e sopra le righe, tutti elementi di un sottobosco criminale (e non) che si muove sotto l’epidermide della città, di una Milano sempre al lavoro che rischia di dimenticare proprio quegli ultimi che trovano spazio nelle disavventure di Monterossi, come pure nelle storie televisive che cerca di scrivere senza svenderle in toto, preservando un frammento incontaminato della propria anima.
Monterossi – La serie ha il nome del suo mattatore, di un detective dell’improbabile “vincente involontario, innamorato dei perdenti” (come è stato dichiarato durante la conferenza stampa) scolpito dai chiaroscuri di una psicologia complessa e sfaccettata, analizzata attraverso l’arte del sogno e il linguaggio dell’onirico che Johnson ha scelto di adottare per non tradire il guizzo approfondito che aleggia nei romanzi di Robecchi, che altrimenti sarebbero stati sacrificati in nome di un adattamento meno fedele ma più televisivo, vicino al gusto (e alla concentrazione) di un pubblico più generalista. L’idea di contaminare il genere fino a ribaltarne i canoni tanto da distorcerli si rivela vincente, innovativa ma “contenuta”: le premesse intriganti si sgonfiano nel corso della narrazione, le novità si trasformano in convenzioni e gli elementi peculiari in stravaganti anacronismi rispetto alla ricerca di un realismo, di un’estrema aderenza alla realtà (non scevra di licenze e sospensioni dell’incredulità).
Nel corso di sei episodi la stranezza di Monterossi – La serie si trasforma in convenzione, in tacito accordo tra il prodotto finale stesso e il suo pubblico: vedere un autore tv alle prese con il proprio lavoro – immortalato soprattutto durante le writers’ room – e poi con delle indagini improvvisate su crimini efferati che lo vedono sempre coinvolto si trasforma ben presto in una visione distopica e utopistica, figlia di un’altra epoca televisiva in cui i consulenti esterni erano il punto forte della serialità media (soprattutto americana) e un personaggio come Jessica Fletcher, scrittrice di gialli e investigatrice part-time, aveva ragion d’essere e d’esistere nella sospensione dell’incredulità del pubblico.
Monterossi – La serie sembra voler ricalcare ad ogni costo questi fasti, lanciando qualcosa di unico sul panorama seriale italiano, ma non nell’immaginario collettivo globale; ecco perché perfino spiare nel buco della serratura degli studi televisivi, osservando Monterossi mentre si muove (come un pesce nell’acquario) tra il suo mondo, il microcosmo milanese al quale appartiene e un sottobosco pericoloso e criminale che non conosce, si rivela un’esperienza curiosa ma non troppo appagante, facendo sorgere un pigro senso di déjà-vu che potrebbe essere spazzato via solo da una nuova stagione, l’unica in grado di permettere ai personaggi di crescere e di alzare l’asticella della complessità, travolgendo nel turbinio inarrestabile delle loro vite anche lo spettatore che è pronto ad affezionarsi, progressivamente, a questi nuovi eroi improbabili e umani, troppo umani (parafrasando Nietzsche).