Una semplificazione comune, quando si pensa all’horror, è associare il genere a ciò che è altro da noi: un mostro è qualcosa di alieno, presenza malvagia che attenta al quieto vivere delle persone perbene. È il pazzo, il deviato, il maniaco che emerge dall’ombra e che si nutre delle nostre paure più profonde. Mentre lo vediamo compiere i suoi atti perversi, tiriamo un sospiro di sollievo: ci diciamo, quasi a volerci auto-assolvere, che non saremo mai come lui. Del resto, quante volte, di fronte all’ultimo efferato episodio di cronaca nera, abbiamo assistito al levarsi degli scudi dei “buoni”? L’assassino diventa vicario del demonio, e bisogna ribadirglielo, mentre gli auguriamo di morire tra atroci sofferenze e tornare nel luogo da cui proviene, l’inferno, a marcire per il resto dell’eternità.
La misericordia cristiana, per come la intendono in molti, non accetta sfumature: essa è applicabile soltanto finché non si valichi il confine, netto, tra bene e male. Ma se è vero che Dio opera in modi misteriosi, il demonio può essere ancora più scaltro e celarsi persino tra gli insospettabili paladini del bene. Un horror che riesca a mettere in luce questa contraddizione ha buone probabilità di centrare l’obiettivo e Midnight Mass, l’ultima fatica di Mike Flanagan, ne è la prova. Dopo l’acclamata doppietta di The Haunting of Hill House e The Haunting of Bly Manor, il regista statunitense si cimenta in una nuova opera, stavolta originale e non libero adattamento di opere scritte da altri. Chi si aspettava una terza casa infestata rimarrà deluso, trovandosi di fronte ad un altro tipo di orrore, meno canonico ma certamente altrettanto disturbante. La miniserie, composta da sette episodi, sarà disponibile su Netflix a partire dal prossimo 24 settembre.
Il quieto vivere degli abitanti di Crockett Island è turbato dall’arrivo di due uomini. Il giovane Riley Flynn (Zach Gilford) si ricongiunge alla famiglia dopo quattro anni trascorsi in carcere con l’accusa di omicidio stradale. Quasi contemporaneamente, Padre Paul Hill (Hamish Linklater) fa il suo ingresso nella comunità, sostituendo l’anziano pastore Monsignor Pruitt, partito per un viaggio in Terra Santa da cui non ha mai fatto ritorno. Se l’arrivo di Riley viene accolto con sospetto, la comparsa di Paul Hill suscita immediato entusiasmo, andando a coincidere con una serie di avvenimenti miracolosi che sconvolgono e allo stesso tempo fomentano la marcata religiosità dei locali. Il sinistro carisma del sacerdote, unito ad una presenza misteriosa che si aggira sull’isola, favorirà l’emergere di tensioni sopite, mettendo finalmente in luce il vero volto di ciascun fedele.
Il terrore è protagonista assoluto in Midnight Mass. Non è il mostro nascosto nell’oscurità, né il crimine efferato, né il jump scare che ti coglie alla sprovvista. È un terrore strisciante, sotterraneo, onnipresente. L’atmosfera di illusoria tranquillità che pervade l’isola ha, da subito, l’aspetto di un sinistro inganno. Anche quando la vita sembra scorrere placidamente, si avverte un senso di pesantezza e oppressione, che accettiamo con inquietudine, in attesa che il rimosso si palesi infine in tutta la sua potenza demoniaca. Tutto ciò che appare rassicurante è sempre carico di un’inspiegabile tensione: la quotidianità, che si ripete sempre uguale a sé stessa, i pescherecci che solcano il mare, le piccole case che fanno da alcova a famiglie irreprensibili, le calde mura della chiesa locale. Già da questi primi sprazzi ci accorgiamo che Mike Flanagan è talmente padrone degli stilemi del genere horror da adattarli, con estrema maestria, ad un’opera che di canonico e tradizionale ha in realtà ben poco. Lo stesso linguaggio filmico non è mai esasperato e rinuncia a facili trucchetti: se cercate porte che cigolano o ombre inquietanti dietro gli infissi, andate da un’altra parte.
“Misura” è la parola d’ordine: in Midnight Mass non c’è mai un’inquadratura di troppo, né un movimento di macchina eccessivamente prolungato. La fotografia, cupa e opprimente, unita ad una colonna sonora essenziale e mai invasiva, ci preparano alla catastrofe, tenendoci sempre all’erta perché, di fatto, non abbiamo la più pallida idea del tipo di disastro che ci aspetterà. Avevamo già visto qualcosa di simile in The Haunting, ma qui si raggiunge l’apoteosi dei pregi dei lavori precedenti, quasi ad indicare la piena maturità del creatore della serie: non un semplice artigiano, ma un autore in piena regola, con uno stile e una firma propri. La ragione di questo ulteriore scatto creativo sta certamente nel legame tra storia narrata e vicenda personale di Flanagan, che in una recente intervista a Vanity Fair ha raccontato della sua formazione cattolica, con tanto di esperienza da giovane chierichetto nella natìa Governor’s Island.
I risvolti autobiografici di Midnight Mass si mescolano, quindi, ad un preciso modo di intendere il genere horror: Shirley Jackson, autrice del romanzo da cui è stato poi tratto The Haunting of Hill House, è (non a caso) una delle primarie fonti di ispirazione di Stephen King. L’idea che il Male, inteso nella sua forma più ancestrale e primitiva, possa celarsi dietro il volto rassicurante della piccola comunità rurale intrisa di ipocrita bontà e di istinti primordiali nascosti sotto al tappeto, è particolarmente cara al “maestro del brivido” e viene riscoperta e rielaborata oggi, quando una serie di mutamenti sociali hanno investito la società americana di una nuova consapevolezza. Guardando al lavoro di Flanagan è quasi immediato trovare delle analogie con Ari Aster e Jordan Peele, per il quali l’horror è in realtà uno strumento per parlare di qualcosa di assai più spaventoso del fantasma di turno: pregiudizio, stigma sociale, fanatismo religioso sono i mostri con cui abbiamo a che fare ogni giorno e ai quali ci siamo ormai tristemente abituati.
Una tale rinascita del cinema di genere non può che prendere le mosse da un solido impianto narrativo e, infatti, è la scrittura a rendere particolarmente dense e pregnanti queste opere. La presa di coscienza richiesta allo spettatore di Midnight Mass è graduale e cerebrale; lo shock visivo, se c’è, è sempre subordinato al racconto, al messaggio subliminale nascosto tra le pieghe di un sermone, di un aneddoto, di un ricordo. Flanagan è un amante dell’introspezione: l’approfondimento psicologico rende chiare le motivazioni di ogni personaggio, permettendo alla sceneggiatura di seguire una direzione ben precisa, senza mai perdersi in giri di parole superflui. Ogni battuta, comprese quelle che sanciscono i momenti drammaturgicamente più poetici e contemplativi, è funzionale alla storia.
Il cast, composto prevalentemente da volti noti ai fan della saga di The Haunting, crea un mosaico variegato di tipi umani, le cui storie personali si intrecciano in un racconto coerente e denso di pathos. Il toccante dialogo tra Erin Greene (insegnante nella scuola locale, interpretata da Kate Siegel) e Riley Flynn sul tema della morte lascia senza fiato: un momento di alta televisione, che commuove lo spettatore, travolto da una scrittura di alto valore, esaltata dal talento indiscutibile dei due interpreti. Si prova un sentimento di appagamento e consolazione, ci sentiamo meno soli e allo stesso tempo si ha l’impressione di aver imparato qualcosa di nuovo.
In primo piano vi è comunque la contrapposizione tra Riley Flynn e Padre Paul Hill: i botta e risposta tra l’ateo divorato dal senso di colpa e il religioso che si sente parte integrante di un ambizioso disegno divino hanno una funzione dialettica, quasi a dare corpo al dialogo interno che si verifica nella mente dello spettatore, conferendo una logica anche alla posizione razionalmente più discutibile. I momenti di maggiore tensione narrativa sono, del resto, quelli ambientati all’interno della chiesa: il fervore con cui il parroco pronuncia le proprie prediche è ipnotico e spaventoso allo stesso tempo (molto del merito va alla mostruosa interpretazione di Hamish Linklater, che con la sua magnetica bravura si erge ben al di sopra di tutti gli altri – pur talentuosi – attori).
Non ci troviamo in una grande basilica, né al cospetto di un uomo di potere, eppure ciò che emerge è il lato più inquietante della fede, il potere affabulatorio dietro cui si cela la potenza della Chiesa Cattolica, che attrae e allo stesso tempo inquieta, generando un perenne sentimento di riverenza e sottomissione. I fedeli presenti, con la loro estasi mista a stupore, sono proiezione dello spettatore, ammaliato dallo spettacolo che si sta spiegando di fronte ai suoi occhi. Il luogo sacro, che dovrebbe fungere da riparo dai drammi terreni, diventa così sede del perturbante, spazio in cui il rito collettivo si esaspera in una follia dionisiaca e (auto)distruttiva.
E mentre ci interroghiamo su quanto possa essere labile il confine tra fede e pazzia, ecco irrompere, in tutta la sua potenza, l’elemento horror. In un’escalation di colpi di scena, distribuiti con intelligente parsimonia nei primi cinque atti della storia, si arriva all’esplosione finale. Inutile girarci intorno: gli ultimi due episodi di Midnight Mass fanno paura. Il tripudio di violenza e distruzione cui assistiamo, però, non è vuoto, né fine a se stesso. Serve, semmai, a rendere ancora più pregnante la riflessione fatta finora, a mettere in scena il male puro, quello che si traveste di false credenze, di buoni sentimenti, di iprocrita benevolenza e di meschina misericordia.
È qualcosa che vediamo ogni giorno e che può emergere da una frase detta distrattamente, da un commento superficiale, da una battuta di cattivo gusto. Midnight Mass ci ammonisce, ricordandoci che nessuno è immune dal contagio della “superstizione” e che anche l’individuo più irreprensibile e pio può nascondere dentro di sé qualcosa di terrificante. L’horror è accanto a noi costantemente, perché si nutre di pregiudizi, di timori irrazionali, di antiche credenze. Dobbiamo avere paura, sì, ma di noi stessi: Midnight Mass gioca le sue carte migliori nella preparazione di questo monito. La soluzione – ci suggerisce la serie, facendo un passo ulteriore – non è stigmatizzare la religione, ma intenderla, piuttosto, come un atto di libertà, cercando un nostro personale, soggettivo, unico modo di intendere la fede: ragionare con la nostra testa, staccarci dai dogmi, dalle credenze limitanti, dai piccoli grandi egoismi che mettiamo in atto ogni giorno. La deflagrazione della violenza e del caos, con il terrore che ne deriva, mettono in atto una vera e propria catarsi nello spettatore che conclude la visione con un senso di pace e di speranza.
Midnight Mass è l’ennesima testimonianza che la serialità, se ben fatta, non ha più nulla da invidiare al cinema. È in questo specifico contesto produttivo che Mike Flanagan ha trovato la sua dimensione, dimostrando una rara abilità nell’imbastire situazioni talmente universali da metterci in discussione prima come esseri umani, e infine come spettatori. Un buon racconto horror ci insegna che paura e inquietudine non sono necessariamente nemici da combattere: se ascoltate, possono condurci a quella lezione che cercavamo disperatamente, a quella forza che non sapevamo di possedere, a quella spinta interiore necessaria a fare pace, finalmente, con i nostri demoni.