Il prossimo 23 ottobre uscirà sulla piattaforma Netflix la miniserie La Regina degli Scacchi, tratta dall’omonimo romanzo di Walter Tevis del 1983. In realtà, il titolo originale sia del testo che della pellicola è The Queen’s Gambit, tradotto letteralmente in italiano “Il gambetto della regina”; per chi non fosse giocatore di scacchi, si tratta di una mossa di apertura al gioco che prevede l’offerta di un pedone su lato di donna, o lato ovest, della scacchiera, una delle aperture scacchistiche più popolari, divertenti e forse la madre di tutte le aperture.
Creata da Allan Scott e Scott Frank e diretta da quest’ultimo, La Regina degli Scacchi è una miniserie che si sviluppa in 7 episodi della durata di circa un’ora ciascuno. La protagonista, interpretata da Anya Taylor-Joy (classe 1996 e con alle spalle già una discreta carriera), è Beth Harmon, di cui si ripercorre la vita a partire dagli 8 anni d’età fino alla maturità sia come donna che come scacchista. Occhi grandi e magnetici, abiti all’ultima moda, gomiti sul tavolo e pugni sotto il mento, è così che si presenta la nota scacchista alla partite più prestigiose degli Stati Uniti d’America e non solo. Lo sguardo di Beth, durante quei lunghi momenti davanti alla scacchiera, si concentra non solo sul gioco ma anche sull’avversario, sottolineando la grande sicurezza di sé che certo non aveva quando, a soli 8 anni, aveva imparato a giocare nel seminterrato dell’orfanotrofio che la ospitava. Lì, un po’ per carattere un po’ per vero e proprio disinteresse, non instaura grandi rapporti d’amicizia con le compagne, ma rimane affascinata dalla scacchiera su cui gioca il custode della struttura nel ripostiglio. Dopo un’iniziale ostilità, l’uomo si convince ad insegnare alla bambina il gioco degli scacchi e nota subito il suo innato talento: è ovvio che quello sarà il suo futuro.
Beth diventa una bambina prodigio del gioco degli scacchi, che diviene per lei quasi un’ossessione a cui dedicarsi giorno e notte. Nel frattempo gli anni passano, Beth cresce ma sempre in orfanotrofio, fino al giorno in cui una classica coppia borghese americana non decide di adottarla, nonostante l’età ormai adulta della ragazza. È da quel momento che la protagonista avrà la libertà di seguire il suo sogno, partecipando alle più esclusive gare di scacchi del paese, seguita da una madre adottiva alcolizzata, con cui instaurerà un rapporto davvero particolare e allo stesso tempo intenso. La vita di Beth non sarà semplice neanche dopo l’esperienza dell’orfanotrofio a causa del proprio carattere e, talvolta, la sua tenacia e perseveranza vacilleranno. Gli avversari che incontrerà sul suo cammino non saranno solo gli scacchisti, perlopiù di genere maschile, ma anche varie dipendenze che, sebbene in un primo momento le sembreranno un’ancora di salvezza, in seguito si riveleranno per quello che sono, sostanze nocive alla sua salute corporea ma soprattutto mentale.
La Regina degli Scacchi è una miniserie che fin da subito rapisce per il modo di raccontare, attraverso molteplici flashback, la vicenda biografica della protagonista. Come spesso accade, anche qui troviamo una piccola attrice dalle grandi capacità attoriali nel ruolo della protagonista. Anche l’interpretazione di Anya Taylor-Joy è notevole, soprattutto nelle scene dove a farla da padrona è il suo sguardo. Il suo fisico (d’altronde è anche modella) le ha permesso di vestire al meglio abiti splendidi, che scandiscono, meglio di altri elementi, il trascorrere del tempo. Sebbene la natura biografica della pellicola, la caratterizzazione dei personaggi non è poi così sufficiente, specie per quanto riguarda i tre che ruotano attorno alla figura della protagonista; anche nel caso di quest’ultima, poteva esser fatta un’operazione certamente più approfondita.
L’impressione che si ha nel seguire la storia è la quasi maniacale concentrazione del regista sul primo piano del personaggio di Beth, sicuramente interessante, ma che dopo qualche episodio della serie risulta stancante. Il gioco degli scacchi viene messo in secondo piano dal punto di vista narrativo, dando largo spazio ad un’operazione di messa in risalto del valore estetico della protagonista: la sua bellezza è onnipresente, anche in scene dove la stanchezza e uno stile di vita sregolato la porterebbero ad avere un aspetto certamente diverso. I dialoghi sul gioco degli scacchi sono scarni, così come le mosse mostrate durante le partite, che talvolta vengono omesse del tutto per fare spazio alle lunghe camminate del personaggio di Beth, che sembra quasi sfilare su una passerella. Anche le crisi dovute ai vari ostacoli incontrati, che dovrebbero portare il personaggio a farsi conoscere maggiormente dallo spettatore, sono in realtà un’occasione per mettere in mostra il fascino della ragazza.
Interessante è sicuramente il rapporto tra Beth e la madre adottiva, probabilmente il tema approfondito maggiormente nella miniserie, un rapporto molto singolare, fatto di complicità taciuta, di affetto espresso con molta difficoltà, talvolta represso, e di bottiglie condivise. Difatti il personaggio della madre adottiva, Alma Wheatley (interpretata dall’attrice e regista Marielle Heller, certamente uno dei più grandi pregi della serie tv), è quello che si presenta meglio al pubblico, grazie ad un profilo psicologico che si delinea durante i vari episodi: è un personaggio che ha una storia, che vediamo crescere e caratterizzarsi episodio dopo episodio. Di Alma Wheatley conosciamo la personalità, la storia, parte del suo passato, le sue fragilità, i limiti caratteriali, alle volte sappiamo già cosa starà per fare o dire, altre volte ci stupirà. Se paragonato a questo personaggio, è facile intuire che il limite del personaggio di Beth è la sua staticità; infatti ritroviamo alla fine il personaggio che ci viene mostrato all’inizio, la sua personalità e le sue caratteristiche sono sempre le medesime, così come il modo di rapportarsi agli altri personaggi. Gli unici due elementi che si modificano nel tempo sono i vestiti da lei indossati e le mosse che gioca sulla scacchiera. Del suo trascorso precedente al periodo dell’orfanotrofio, vediamo qualche flashback che mostra avvenimenti importanti, ma non vengono né raccontati né affrontati dal personaggio, restando così isolati e quasi privi di senso se messi in relazione alla trama.
Sebbene la miniserie sia ambientata nell’America degli anni ’50/’60, le scene iniziali, che ritraggono l’inserimento di Beth all’orfanotrofio, ricordano una campagna inglese senza tempo, tipica di storie come Jane Eyre o Il giardino segreto. In seguito veniamo tuffati nell’America anni ’60, fatta di villette a schiera dei quartieri residenziali, gonne ampie a fisarmonica per le donne e tracce musicali come “Don’t make me over” di Dionne Warwick. Ma l’ambientazione risulta meno di una cornice alla narrazione, forse per rispecchiare l’indifferenza di Beth nei confronti del periodo storico che vive (più volte la vedremo ignorare gli accadimenti storici del tempo per una spasmodica concentrazione nei confronti del gioco degli scacchi), fatta eccezione, come già detto, per gli abiti. Infatti, non appena riuscirà a mettere da parte qualche risparmio, la moda diventerà la seconda passione del personaggio di Beth; vestire abiti alla moda, la farà apparire meno seria come giocatrice di scacchi e, probabilmente, sottovalutare dall’avversario. Quest’ultimo è sempre rappresentato da una figura maschile seria e composta, lontana dalla vita mondana del tempo, fatta eccezione per il personaggio di Benny, interpretato da un ormai cresciuto Thomas Brodie- Sangster (Love Actually). Benny è certamente lo scacchista più vicino a Beth, sia per bravura che per bell’aspetto, tuttavia anche questo personaggio è appena abbozzato, nonostante sia molto presente sulla scena.
In sette episodi non sono moltissimi i personaggi che incontriamo, tuttavia non c’è mai l’esigenza da parte del regista di creare situazioni in cui raccontare la loro storia, di soffermarsi sulla loro personalità. Insieme a questa, una delle grandi mancanze de La Regina degli Scacchi è proprio l’assenza del gioco degli scacchi, anche questo mostrato più volte ma sempre in modo marginale e come mezzo per far risaltare, sì, le capacità del personaggio di Beth, ma soprattutto i suoi lineamenti estetici. Il romanzo ha il pregio di far appassionare il lettore alle partite di Beth; Walter Tevis utilizza spesso termini tecnici del mondo scacchistico, ma ha una scrittura talmente fluida e semplice da creare situazioni avvincenti, con tanta suspense, una caratteristica che manca completamente alla serie tv e che una buona regia avrebbe potuto mettere in risalto. Terminato il romanzo, la prima cosa che viene in mente al lettore è quella di prendere una scacchiera ed iniziare a giocare; terminata la serie tv, questo non succede.