Il grande e il piccolo schermo sono il riflesso ideale dei nostri occhi, nei quali si proiettano le immagini di un mondo circostante in continuo mutamento, pronto a correre più veloce della nostra capacità di adattamento ma anche a fermarsi bruscamente, segnando un pit stop obbligato per la globalizzazione, l’inclusione e l’evoluzione dei diritti civili. Lo schermo è sia il medium che il messaggio, parafrasando il massmediologo Marshall McLuhan: le opere audiovisive permettono di interpretare la realtà, inducendo lo spettatore assorto – dall’altro lato “dello specchio” – a riflettere sulla realtà fenomenica e contingente.
La grande difficoltà odierna è spesso quella di trovare le chiavi giuste, i “grimaldelli” fatali con i quali fare breccia nella coscienza collettiva del pubblico, irrompendo in un immaginario consolidato permettendogli di acquisire nuove consapevolezze; il rischio che si corre, talvolta, è quello di edulcorare e diluire temi cardine in nome del mainstream, oppure – au contraire – di “strillare” proclami ridondanti a gran voce, svuotandoli di ogni significato e riducendoli, infine, ad una massa informe di slogan. La virtù è nel mezzo, nel trovare un delicato equilibrio tra narrazione popolare-commerciale e impegno, veicolando attraversi le immagini messaggi significanti (e significativi).
Lezione che la casa di produzione Groenlandia sembra aver appreso e messo in pratica in svariate occasioni, attraverso incursioni cinematografiche e televisive – tra tv generalista e piattaforme VOD – sempre all’insegna di una contaminazione tra tradizione e sperimentazione, con uno sguardo rivolto al gusto tutto italiano per i generi e un altro al futuro del mercato audiovisivo e alle nuove frontiere dello storytelling.
In tale ottica l’approdo su Netflix con una serie in sei puntate segna un vero traguardo, il raro caso di un prodotto audiovisivo originale e genuinamente italiano (dopo l’adattamento de La vita bugiarda degli adulti dal romanzo della Ferrante) consapevole dei propri obiettivi e dei punti di forza che ha a disposizione per sedurre un pubblico sempre più vasto. La “fortunata” è La legge di Lidia Poët, nata dalla mente creativa di Guido Iuculano e Davide Orsini (co-autori insieme a Elisa Dondi, Daniela Gambaro e Paolo Piccirillo della sceneggiatura) sotto l’egida produttiva di Matteo Rovere, qui anche regista insieme a Letizia Lamartire, che sarà disponibile in streaming dal 15 febbraio.
Siamo nella Torino di fine 1800, quando una sentenza della Corte d’Appello della città dichiara illegittima l’iscrizione di Lidia Poët (Matilda De Angelis; Call My Agent – Italia, The Undoing) all’albo degli avvocati, impedendole così di esercitare la professione solo perché donna. Senza un quattrino ma piena di orgoglio, Lidia trova un lavoro presso lo studio legale del fratello Enrico (Pier Luigi Pasino), mentre prepara il ricorso per ribaltare le conclusioni della Corte.
Attraverso uno sguardo brillante che va oltre il suo tempo, Lidia assiste gli indagati ricercando la verità dietro le apparenze e i pregiudizi, coadiuvata dalle presenze di Jacopo (Eduardo Scarpetta; Le fate ignoranti, Qui rido io), un misterioso giornalista nonché suo cognato, che le passa informazioni e la guida nei mondi nascosti di una Torino magniloquente, e del commerciante dandy Andrea Caracciolo (Dario Aita).
Parlare di femminismo senza cadere nella retorica
La legge di Lidia Poët rappresenta quella boccata d’ossigeno in un mercato audiovisivo italiano che, esattamente come uno squalo, rischiava di continuare a muoversi in modo ininterrotto alla ricerca di un prodotto capace di condensare in sé le potenzialità per affermarsi in un mercato internazionale competitivo e la forza di uno storytelling ineccepibile ed universale, classico nella forma quanto nelle situazioni eppure moderno nella commistione dei linguaggi scelti e degli argomenti affrontati.
Perché per riflettere, attraverso la lente deformante del genere, il nostro presente, sceneggiatori e registi hanno scelto di partire dalla realtà: dalla storia vera di Lidia Poët, prima donna avvocata in Italia, a sua volta protagonista di una travagliatissima vicenda personale sullo sfondo di una Torino alle soglie del Secolo Breve. Partendo da fatti e persone reali (e assolutamente casuali), la crew dietro la serie ha scelto di sviluppare una narrazione originale dettata dalle logiche della fruizione tv, romanzando la realtà storica e creando una “verità alternativa” che esiste sul piccolo schermo grazie al patto stipulato con gli spettatori e legato alla sospensione dell’incredulità: non importa se la vera Lidia Poët è ben lontana dal prodotto finito, perché il mondo ricostruito dalla creatività degli autori – e dei registi, appunto – è quanto mai reale, concreto e affascinante.
Nello sviluppare gli intrighi, i crimini, i casi e le vicende affrontate dalla giovane avvocata, da suo fratello Enrico e dagli altri personaggi che gravitano loro intorno, la scelta è ricaduta su modelli – e moduli – narrativi tradizionali, dal respiro più ampio e “leggero”, coniugando la semplicità richiesta da un’opera di fruizione pop(ular) con quel gusto (tutto nostrano) per i generi e i loro canoni: crime, legal e light procedural alla base, senza contare le contaminazioni ibridate con la spy story e l’horror gotico, La legge di Lidia Poët si muove lungo gli assi narrativi dell’intrattenimento di qualità spensierato, irresistibile e pirotecnico, senza mai perdere di vista il proprio focus celato dietro eventi, situazioni e personaggi.
Perché l’ottima – e dettagliata – ricostruzione della Torino di fine ‘800 è uno specchio perfetto per mostrare anche le moderne idiosincrasie che dilaniano i nostri tempi: uno sfondo caratterizzato da un humus culturale brillante e vivido dove però le donne avevano davanti a loro ancora strade lunghissime da percorrere per raggiungere una piena emancipazione, anche a costo di compiere sacrifici e scelte importanti pur di liberarsi dal giogo della morale imperante. Donne alla ricerca della propria voce, soffocata spesso da rituali borghesi fin troppo ingombranti e da aspettative anacronistiche che riflettono le loro ombre spettrali ancora sul nostro presente, nel quale le donne hanno raggiunto degli importanti obiettivi dai quali riprendere la propria lunga marcia verso la consapevolezza e l’auto-affermazione.
La legge di Lidia Poët riesce così a parlare di femminismo senza cadere nella frivola – e scontata – retorica da slogan commerciali: questo grazie ad un’abile scrittura dei personaggi, tratteggiati con le luci e le ombre di tutti gli anti-eroi fallibili cari tanto alla narrativa post-moderna quanto a quella romantica (e scapigliata) dell’800 e interpretati in modo brillante da attori che si sono lasciati attraversare, in modo febbrile, da questi caratteri così indomiti; ma soprattutto grazie alla capacità di lasciar parlare le scene piuttosto che le linee di dialogo, permettendo alla serie di acquisire quella dimensione effettiva di “scrittura per immagini” lontana da tranelli didascalici scontati e vuoti.
A dialogare intensamente con lo spettatore è, appunto, la legge di Lidia, quel suo decalogo di regole e di comportamenti avventati e moderni lanciati in un contesto anacronistico, sospeso tra la ricostruzione di un passato minuzioso e di un presente veloce e colloquiale (dettaglio che emerge soprattutto negli scambi di battute tra i personaggi), in grado di trasformarla prepotentemente in una nuova icona del piccolo schermo pop 3.0.