La carriera degli attori e delle attrici è spesso fatta di vertiginosi saliscendi. A volte, il successo arriva un po’ per caso, magari grazie a un determinato film che riesce magicamente a mettere d’accordo sia il pubblico che la critica. L’insuccesso, invece, è come un rapace che si aggira furtivo intorno alla preda e la guarda da lontano pronto a colpire. La storia del cinema è costellata di grandi interpreti che a un certo punto sono incappati nel film sbagliato. Perché, in fondo, tanto dipende proprio dalle scelte (a volte fortunose, a volte scellerate) che attori e attrici prendono insieme ai loro agenti.
Decidere di girare un film al posto di un altro può dare una volta positiva a una carriera, ma può anche affossarla. Per chi scrive, un attore e un’attrice non possono non essere “giudicati” anche per le scelte prese durante l’arco della loro carriera; tenendo conto del coraggio dimostrato e della capacità di rinnovare/adattare la loro immagine ai tempi che cambiano. Da questo punto di vista, la carriera di Natalie Portman dovrebbe essere presa ad esempio. Al di là del talento dimostrato fin dai tempi del suo esordio in Leon, l’attrice ha sempre compiuto scelte mai banali, passando con scioltezza dalle mega produzioni (la seconda trilogia di Star Wars, il Marvel Cinematic Universe) a piccoli film indipendenti (il delizioso, e purtroppo celermente dimenticato, La mia vita a Garden State di Zach Braff), passando per il cinema d’autore puro (è stata musa, tra glia altri, di Darren Aronofsky, Terrence Malick e Pablo Larraín).
Una vocazione al cambiamento e alla sfida (con sé stessa e con ruoli sempre più complessi da affrontare) che ha probabilmente toccato l’apice negli ultimi mesi grazie alla partecipazione a due progetti ambiziosi a cui l’attrice ha creduto a tal punto da ritagliarsi anche il ruolo di produttrice esecutiva. Il primo è May December di Todd Haynes, uscito in Italia qualche mese fa; e la serie Apple Tv+ La donna del lago, tratta dall’omonimo romanzo di Laura Lippman e adattata per il grande schermo dalla regista israeliana Alma Har’el (anche regista), le cui prime due puntate saranno disponibili dal 19 luglio (mentre le successive cinque usciranno a cadenza settimanale).
Misteriosi omicidi a Baltimora
Nel giorno del Ringraziamento del 1966, la città di Baltimora è sconvolta dal misterioso omicidio di una ragazzina. Un accadimento che non lascia indifferente la comunità ebraica, di cui la famiglia della giovane fa parte, e che scuote (forse persino oltre misura) anche Madie (Natalie Portman), moglie servizievole e madre amorevole che – di punto in bianco, e senza un apparente motivo – abbandona il tetto coniugale per andare ad abitare da sola nel quartiere afroamericano. Qui, Madie inizia a indagare sull’assassinio della giovane, collaborando con un giornale e portando progressivamente a galla una serie di misteri irrisolti a cui sempre lei cercherà di dare una spiegazione.
L’omicidio ha però un impatto anche sulla vita di un’altra donna, appartenente alla comunità afroamericana: Cleo (Moses Ingram, già vista in Obi-Wan Kenobi). Separata e con un figlio malato, la donna cerca di tirare avanti come può, sognando trovare finalmente un lavoro vero e onesto grazie all’intercessione di una senatrice da lei sempre sostenuta, e abbandonando così i miseri lavoretti leciti e illeciti con cui riesce per il momento a mettere da parte qualche soldo. Le strade delle due donne viaggiano per gran parte del tempo parallele, finché un altro (tragico) evento non le fa convergere.
Tra il noir e il thriller psicologico
La donna del lago inizia come il più classico whodunit: un omicidio, un’investigatrice desiderosa di indagare, una città che ribolle delinquenza. Poi, di puntata in puntata, la serie cambia progressivamente registro, affidandosi ad atmosfere più consone al noir e al thriller psicologico. Gli eventi in sé cominciano a perdere progressivamente di importanza (a cominciare dall’omicidio della ragazzina), e ad emergere – alla lunga – sono soprattutto le due protagoniste e i conflitti interiori che lacerano le loro esistenze. Madie e Cloe sono due donne che hanno sognato di essere altro – la prima una giornalista, la seconda una cantante – ma che si sono ritrovate a vivere due esistenze mediocri da cui non vedono l’ora di affrancarsi. Gli eventi esterni non sono dunque altro, per loro, che il pretesto per compiere un viaggio interiore; per ripercorrere alcune tappe (spesso dolorose) della loro esistenza, tra traumi mai superati e fantasmi del passato che continuano a tormentarle.
Per descrivere la complessità interiore delle protagoniste, la showrunner e regista Alma Har’el si affida a una messa in scena elegante e visionaria. Ogni elemento estetico o scenico contribuisce alla definizione di un universo narrativo spesso in bilico tra realtà e sogno: la fotografia, i costumi, le scenografie, le musiche. Se a volte si ha la sensazione che il barocchismo visivo non sia sempre supportato a dovere dalla sceneggiatura (poco incisivi, ad esempio, i tentativi di far dialogare la vicenda con la realtà sociale dell’epoca e la descrizione semplicistica di una realtà machista), la radicalità estetica che caratterizza la serie lascia spesso a bocca aperta. Vedere per credere il penultimo episodio: un gioiello di poco meno di un’ora che incanta per creatività e coraggio.