È possibile tracciare un confine netto tra vita e arte? Nell’arco dei suoi 8 episodi, disponibili su Sky e NOW, Irma Vep (il cui sottotitolo italiano è, non a caso, “La vita imita l’arte”) cerca in tutti i modi di rispondere a questa annosa domanda. Una domanda retorica, vista la forte impostazione meta-cinematografica della serie. Le continue interferenze tra realtà e finzione sono gli strumenti con cui il regista e sceneggiatore Olivier Assayas si prodiga nel ribadirci che il cinema è una rappresentazione in scala della quotidianità e la quotidianità, a sua volta, porta con sé le tracce di un immaginario artefatto, costruito in un universo (quello del set) assai meno scintillante del mondo patinato spesso associato alla settima arte.
Mira Harberg (Alicia Vikander) è un astro nascente del cinema americano. Ancora impegnata nella promozione del blockbuster Doomsday, si reca a Parigi per iniziare le riprese di Irma Vep, miniserie diretta dal regista René Vidal (Vincent Macaigne) e rifacimento in chiave moderna di Les Vampires, classico ad episodi del cinema muto francese, firmato dal grande Louis Feuillade.
Inutile girarci intorno, la trama di Irma Vep è tutta qui. Assayas, in un atteggiamento a metà tra il sadico e il compiaciuto, seleziona il suo pubblico sin dal primo episodio: l’alternanza tra avvenimenti insignificanti e dialoghi illuminati (o presunti tali) sull’industria cinematografica difficilmente potrà attrarre un pubblico generalista e alla ricerca di un racconto inteso nell’accezione più tradizionale del termine.
Per godere a pieno di Irma Vep, infatti, occorre prima di tutto aver visto il lungometraggio omonimo, diretto dallo stesso Assayas nel 1996, così da cogliere sia gli innumerevoli riferimenti all’opera presenti nella miniserie che lo statuto autobiografico del personaggio interpretato da Macaigne. In secondo luogo, è necessario possedere qualche nozione su Les Vampires (da dove ebbe origine il personaggio di Irma Vep, interpretato nel 1915 dalla leggendaria Musidora) identificandolo subito come capolavoro esistente e non come semplice invenzione narrativa.
Gli insistiti rimandi alle due opere, al di là del loro essere funzionali alla causa meta-cinematografica, pongono la narrazione su una china autoreferenziale e al limite del fastidioso, specie nei momenti in cui si intravede la spocchia grossolanamente travestita da tributo. Un tributo che, vale la pena sottolinearlo, Assayas fa prima di tutto a sé stesso, in un’auto-celebrazione a tratti seriosa e a tratti ironica. L’ironia intermittente, pur rendendo il verboso spettacolo più digeribile agli occhi dello spettatore medio, è quasi sempre contaminata dall’autocompiacimento, come se l’autore di siffatti dialoghi, così divertenti e brillanti, si aspettasse una metaforica pacca sulla spalla.
A poco valgono gli sforzi degli ottimi attori, che hanno a che fare con personaggi di fatto noiosi e perlopiù (al di là di un paio di eccezioni) insopportabili. Il motivo è da rintracciarsi nella scrittura e, ancora una volta, nella volontà da parte del regista di servirsi della miniserie come sfogatoio personale, ricettacolo di nevrosi, insoddisfazioni private ed elucubrazioni sullo stato dell’arte. Il tentativo costante di venire a patti con le proprie idiosincrasie, messe in scena per mezzo del (simpatico, va detto) personaggio di René Vidal, si scontra con una boria di fondo, di cui lentezza ed estrema prolissità non sono altro che sintomi.
La sincerità che potrebbe celarsi dietro talune prese di posizione viene alla fine inquinata dalle innumerevoli tirate forbite intavolate dai protagonisti a proposito del rapporto tra piccolo e grande schermo, con la trita e ritrita riflessione sulla preponderanza dei colossi streaming e sull’esigenza di ritornare ad un cinema puro, autoriale, libero il più possibile da condizionamenti di carattere economico. Si arriva persino a puntare il dito (sempre ironicamente, ci mancherebbe) contro il pubblico che “si addormenta sul divano guardando Netflix”. In Irma Vep, insomma, perfino l’ironia è “meta”: la miniserie è infatti targata HBO, le cui produzioni sono sì di qualità, ma certamente non riservate ad una piccola nicchia di appassionati di cinema d’essai.
A questo punto, volente o nolente, Assayas rischia di sfoltire ulteriormente la platea, restando da solo a parlare con i cinefili più snob, appagati da una narrazione verbosa, priva di trama, disseminata di discorsi che si incartano su sé stessi e che non conducono da nessuna parte. Il momento insignificante, elevato a fulcro centrale del racconto, crea una continuità apparente con la tradizione cinematografica d’oltralpe ma, checché se ne pensi, Irma Vep ha poco o nulla a che fare con la riflessione che poteva essere imbastita da autori come Truffaut o Godard.
L’omaggio intellettuale alla settima arte sacrifica tanto il potere dissacratorio del cinema quanto la forza nazionalpopolare della televisione, riducendo Irma Vep ad uno sfoggio di erudizione, che ha quantomeno il merito di distrarre lo spettatore dall’inconsistenza della serie. A farne le spese è lo spirito ribelle che, nel lontano 1915, animava Musidora: di lei resta soltanto una tutina attillata, che oggi Alicia Vikander indossa come un costume di scena qualsiasi, privando la sua eroina dell’estro magnetico che, un tempo, la distingueva da tutte le altre.