Al racconto audiovisivo si chiede spesso una cosa, essere originale. Di cercare delle forme discorsive che possano rinnovare, innervare di novità qualcosa di già noto, di già affrontato, di già elaborato. La domanda allora è: vale la stessa cosa per un racconto come quello dello sterminio del popolo ebraico da parte del regime nazista? È già stato detto o mappato tutto di quello che è stato l’abisso più profondo della storia dell’umanità. Cosa, questa, che comunque non garantisce ancora la permanenza nella memoria e nella coscienza collettiva di cosa quell’evento abbia significato e dovrebbe significare oggi nei nostri pensieri e nelle nostre azioni.
Certo, ciò non esclude che qualcuno possa analizzarlo in maniera inedita e folgorante: è il caso del film premio Oscar di Jonathan Glazer, La zona d’interesse. Ma a racconti simili si può chiedere di essere ad ogni costo originali? Perché Il Tatuatore di Auschwitz, miniserie in sei episodi su Sky Atlantic, originale non lo è. È una serie in testimonianza, di come tante ne abbiamo conosciute. Parte da un romanzo omonimo scritto da Heather Morris, che mette in novella le memorie del sopravvissuto Lali Sokolov durante il suo periodo di permanenza nel campo di sterminio di Auschwitz – lo stesso campo di cui è comandante Rudolf Höss, il protagonista reale proprio de La zona d’interesse.
Raccontare il male
Nella miniserie scritta da Jacquelin Perske e diretta da Tali Shalom Ezer ci sono proprio Morris (Melanie Lynskey) e Sokolov (Harvey Keitel). La prima ascolta seduta sul divano, nella mimica dello spettatore che vorrebbe chiedere, poi si sente a disagio e infine si commuove. Il secondo racconta, che nella formulazione tipica dell’opera-intervista apre quindi il ricordo a uno spaziotempo che riconduce il suo racconto, e noi, ai giorni terribili della prigionia. Il Tatuatore di Auschwitz è un’opera che punta molto sull’emotività. Il resoconto che fa della cattività di Lali è brutale, pieno della violenza insensata nazista e mossa dal sadismo.
La trova in particolare in un personaggio, l’ufficiale delle SS Stefan Baretzky (Jonas Nay), ragazzo violento, disadattato e scansato persino dai suoi stessi ranghi. Con lui Lali, divenuto presto tatuatore per le SS e quindi prigioniero malvisto dagli altri prigionieri perché gode di alcuni piccoli privilegi, instaura uno strano rapporto di dipendenza e di favori reciprochi. Il confinare la barbarie in un personaggio come Baretzky è però uno strumento drammaturgico scivoloso. Perché funzionale al creare la tensione del racconto, così come troppo tentato di tradire, di giustificare clinicamente la freddezza e la meticolosità dell’ingranaggio nazista, ben più vicino ai precetti della banalità di Hannah Arendt che alla psicosi dell’ufficiale.
Seguire la speranza
Nel controcampo dei due c’è però anche la speranza. È Gita (Anna Próchniak), prigioniera di cui Lali si innamora e con la quale alimenta un sentimento all’apparenza impossibile. È attorno al ricordo di lei che Il Tatuatore di Auschwitz articola poi il senso di colpa da cui è consumato il Sokolov del presente, uomo che nel salotto di casa sua è spesso visitato dai fantasmi di compagni e aguzzini ai tempi della prigionia. Un complesso del sopravvissuto che la serie ricostruisce scorrendo nel corso degli episodi sopra i volti che Lali ha incrociato in quelle baracche fatiscenti in cui si consumavano le solidarietà, le tensioni e le ostilità di una disperazione che, anche nelle differenze, era tutta simile a se stessa.
E questa della somiglianza nelle diversità, dell’adesione a una stessa condizione, è un concetto che Il Tatuatore di Auschwitz marca in più di un’occasione, scorrendo in maniera forse anche didascalica i modi d’aiutarsi e d’intendersi. Ad un’operazione come questa, sarebbe forse disonesto andare a chiedere altro, in altri termini. È vero che rischia in più di un’occasione di muovere a lacrima lo spettatore-testimone, ma è vero anche che si pone fin da subito come resoconto nero in cui lasciare traccia di una luce che, per chi poi tornerà, sarà difficile accettare di seguire.