Una delle serie italiane più importanti e riuscite degli ultimi anni è senza ombra di dubbio L’amica geniale, tratta dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, parte a sua volta di una saga di formazione, che intreccia la storia di più famiglie con le vicende storiche che hanno interessato una certa epoca della Storia italiana. Una struttura classica, che nel nostro cinema ricorre fin dal secolo scorso, con titoli straordinari, che hanno sempre avuto come loro centro la capacità di coordinare il micro e il macro, trovando una connessione tale da renderli un tutt’uno, nell’incedere e nel trasformarsi.
I Leoni di Sicilia, la serie ideata da Paolo Genovese (Supereroi, Il primo giorno della mia vita) e in arrivo su Disney+ dal 25 ottobre, si ispira a questa idea, non solo perché anch’essa è tratta dal romanzo omonimo di Stefania Fauci, parte della saga familiare dei Florio, ma perché vuole replicare il tipo di gioco di struttura narrativa sopracitato, forte di un impianto internazionale (più che altro oltreoceanico) dell’uomo che si fa da sé, sommato ad un messaggio moderno di emancipazione della donna, tematica che può aprire un discorso molto interessante a proposito della gestione del potere all’interno della coppia.
Sulla carta ci sono dunque tutti i crismi per lo sforzo produttivo del caso e non poche ragioni per attrarre lo spettatore, alle quali si somma il cast corale, che vede alla lunga prendere il palcoscenico la coppia composta da Michele Riondino e Miriam Leone, ma che, solo nelle prime 3 puntate, quelle che abbiamo visto in anteprima a seguito della presentazione della serie alla 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma, vanta tra i suo i volti quelli di Vinicio Marchioni, Paolo Briguglia, Ester Pantano e Donatella Finocchiaro. Peccato che poi, come si suol dire, esista anche la pratica.
La storia della famiglia Florio
I Florio sono una famiglia disgraziata di Bagnara Calabra, abituata a sopravvivere a fatica alle sfide quotidiane e che vedono le ultime speranze di un’esistenza adagiata svanire dopo una disgrazia che li colpisce all’improvviso. Motivo per cui Paolo (Marchioni) decide di trasferirsi a Palermo insieme alla moglie Giuseppina (Pantano), il figlio Vincenzo e il fratello minore Ignazio (Briguglia) in cerca di fortuna.
Una fortuna, che contro tutto e tutti, arriva presto grazie al talento del capofamiglia e al sudore della fronte di tutti quanti. La bottega di spezie della famiglia diviene la più importante della città, ma questo non basta a permettere loro di trovare una stabilità interna, alterata dai malumori di donna Giuseppina, o esterna, dato il rigetto nei loro confronti sia da parte dei commercianti indigeni che della classe nobiliare, che disprezza chi maneggia i soldi.
Nella narrazione divisa in due piani temporali differenti si segue la vicenda dei Florio, che presto diventa quella di Vincenzo (Riondino), cresciuto con uno spirito imprenditoriale fuori dal comune e con una sete di vendetta nascosta da quella di potere, per rendere il suo nome il più importante di tutta la città e trovare un riscatto contro un mondo ormai in decadenza, che lo ha sempre scansato.
Come accade in ogni saga che si rispetti, ad un certo punto sulla scena compare una luce, un momento di svolta, che fa vacillare un protagonista fino a quel momento inarrestabile. Di solito ha le fattezze di una donna, che ne I Leoni di Sicilia è la milanese Giulia Portalupi (Leone), istruita, indipendente e forte. Una donna moderna, che vale più della dote della sua stessa famiglia e che proprio per questo, ironia della sorte, Vincenzo non può sposare.
Riaggiornarsi e non svecchiarsi
I Leoni di Sicilia accusa tutti quanti quelli che sono i limiti dello sceneggiato classico italiano. Un format che fatichiamo a scrollarci di dosso in un’epoca in cui è invece incredibilmente necessario farlo per non cadere nell’errore in cui puntualmente incappiamo di non riuscire a inserirci in un mercato che pretende un aggiornamento che passi da una riappropriazione e non da uno svecchiamento. Un po’ quello che cerca di fare Groenlandia, per non tornare sempre alla creatura di Saverio Costanzo, che ha un’anima e un passo comunque differente, dimostrando come le potenzialità le abbiamo tutte. Quello che invece si fa di solito è rimanere attaccati ad un progetto funzionante sulla carta.
La serie di Paolo Genovese non è quasi mai credibile, tanto nella ricostruzione storica quanto nello sviluppo della sua trama. I personaggi sono monodimensionali o confusionari; la regia, dai primi piani ai piani ampi, dagli esterni agli interni, non respira mai, evocando continuamente nello spettatore l’idea della prima serata sulla Rai e la scrittura fa altrettanto. La fotografia non migliora la situazione, non riuscendo mai a trasportare chi guarda dentro quello che succede, a farlo sentire in quel luogo e in quel tempo, che non è solo Palermo. La scelta delle musiche è francamente straniante, specialmente se pensate nella loro capacità di divenire un registro coerente per un lavoro del genere (la conclusione della prima puntata è l’esempio più indicativo possibile). Gli interpreti sono tutti quanti ottimi, ma rischiano di scomparire sotto il peso di quello che la serie ambisce, ma non riesce quasi mai ad essere, anche se, a dire il vero, la terza puntata, quando uno dei due piani temporali sparisce e si passa solo su uno, migliora la situazione.
I leoni di Sicilia è un lavoro che vuole utilizzare le vicende di una famiglia per parlare dell’Italia dell’epoca, trovandoci però degli spunti interessanti che possano consentire di parlare dell’Italia ed è ovviamente più facile farlo nel momento in cui si ha un veicolo narrativo più riconoscibile per il pubblico e che si costruisce quasi da sé, come quello della storia d’amore, anche molto nelle corde di un autore come Genovese. Vediamo nel proseguo quello che ci si riserverà la serie, anche se le premesse, purtroppo, visti i nomi e il materiale, sono tutt’altro che incoraggianti.