L’universo della serialità è estremamente ampio e variegato, ed è normale che a volte sia difficoltoso per gli spettatori orientarsi. Si privilegia magari un titolo, e parallelamente se ne lasciano altri indietro. La scelta, chiaramente, dipende dal gusto di ognuno di noi, ma a volte, presi dalla smania di finire quella stagione “perché l’hanno vista tutti“, oppure di vedere quella serie perché supportata da una campagna comunicativa ad hoc che ci ha colpiti in modo particolare, perdiamo di vista alcune opere che – nonostante le apparenze – possono rivelarsi delle vere e proprie sorprese, come la prima stagione di Homecoming, disponibile su Amazon Prime.
La serie ha una genesi molto particolare. Trae ispirazione, infatti, da un podcast radiofonico di Eli Horowitz e Micah Bloomberg, anche autori del soggetto e showrunners dei 10 episodi che compongono la serie, della durata di circa 25/30 minuti ciascuno. La trasposizione seriale, però, si avvale anche di due figure capaci di dare non solo garanzie a livello artistico, ma anche a livello produttivo: l’attrice Julia Roberts, per la prima volta alle prese con la serialità, e il regista Sam Esmail (Mr. Robot), coinvolti anche in veste di produttori esecutivi.
Dopo anni passati a lavorare presso una struttura paragovernativa che aiutava i veterani di guerra a reinserirsi nella società, la terapeuta Heidi Bergman (Julia Roberts) è tornata a vivere con la madre (Sissy Spacek) in Florida, dove lavora come cameriera presso una tavola calda. Un giorno, mentre è in servizio, riceve la visita dell’agente Thomas Carrasco (Shea Whigham) che vuole farle alcune domande sul suo precedente impiego. Heidi, però, sembra non ricordare quanto accaduto all’epoca, né per quanto riguarda il responsabile del progetto a cui stava lavorando, Colin Belfast (Bobby Cannavale), né riguardo ad uno dei suoi pazienti, Walter Cruz (Stephan James), con il quale però sembra aver intrattenuto, all’epoca, un rapporto speciale. Heidi sta mentendo, oppure la verità è un’altra?
Homecoming è una serie perturbante capace di coniugare la tensione tipica del cinema di Alfred Hitchcock – oltretutto citato abbondantemente durante il corso della narrazione, e a cui si devono anche i numerosi riferimenti alla psicoanalisi – e il “senso” del mistero tipico del cinema di David Lynch. Durante il corso degli episodi, gli autori trascinano letteralmente lo spettatore in un vortice di eventi e situazioni stranianti che assumono le sembianze di tasselli sparpagliati che compongono un complesso (ed angosciante) puzzle che, piano piano, comincerà a prendere forma.
Scritta in maniera impeccabile, senza preoccuparsi troppo di spiegare tutto, e anzi lasciando volutamente molti punti insoluti, la serie è un manifesto, una sorta di “esempio” su come ogni componente di un’opera possa essere non solo perfetto in sé, ma funzionale alla riuscita dell’opera stessa. Così, se la sceneggiatura riesce a tenere insieme in modo esemplare tutti i (molteplici) fili del racconto, calibrando alla perfezione ogni piccola o grande svolta narrativa, a contribuire allo straordinario risultato finale di Homecoming partecipano anche la regia di Sam Esmail, che potremmo definire “concettuale”, data la sua densità da un punto di vista del “significato” (e non è un caso che sia esclusivamente lui a sedersi dietro la macchina da presa, senza passare il testimone ad altri autori, un po’ come a volere sancire l’uniformità delle scelte stilistiche adottate), nonché un cast assolutamente perfetto, sia per quanto riguarda i ruoli principali che quelli secondari.
Riguardo alla messa in scena, la serie predilige un’approccio quasi espressionista e profondamente autoriale, scelta non scontata per una serie che comunque parte come un’opera di genere (thriller). Nello specifico, da un punto di vista squisitamente visivo, Esmail sceglie di adottare due formati distinti: un vintage 1:1 per gli eventi raccontati nel presente e un classico 16:9 per quelli nel passato. Una scelta che non è assolutamente di maniera ma contribuisce a determinare un aspetto centrale della serie, sul quale ovviamente glisseremo per evitare il rischio spoiler. A questo, si deve aggiungere la capacità del regista, in concerto con il direttore della fotografia Tod Campbell (il cui lavoro è esemplare), di alimentare attraverso le inquadrature il senso di claustrofobia, di mistero, di tensione che si dipana lungo il corso della narrazione e che non abbandona mai lo spettatore, neppure per un secondo.
Ma, la riuscita di Homecoming deve molto, come già accennato, anche ai suoi interpreti. Qui non si tratta solo di celebrare un’attrice come Julia Roberts, la cui bravura è fuori discussione, ma di rendere onore – nel complesso – a tutto il cast che ha preso parte al progetto: dal bravissimo Stephan James (Race – Il colore della vittoria) nella parte del reduce complessato, al sempre ottimo caratterista Bobby Cannavale, che meriterebbe una chance anche da protagonista, e senza dimenticare Shea Wigham, che ci regala la caratterizzazione forse più bella della serie, quella del detective Carrasco, un personaggio che sembra rappresentare un aggiornamento del tipico antieroe hitchcockiano, travolto da accadimenti più grandi di lui. Un ruolo che sessant’anni fa sarebbe stato perfetto per James Stewart (La donna che visse due volte), e che oggi Wigham ci restituisce in tutta la sua frustrata e grottesca impotenza.