Girlboss è la nuova serie targata Netflix che ha già conquistato l’attenzione degli spettatori ma soprattutto delle spettatrici, alle quali sembra in qualche modo “dedicata” questa storia di successo “dalle stalle alle stelle” di una moderna Cenerentola anarchica e punk, pronta a riaffermare la forza del girl power grazie alla propria sfrontata indipendenza.
Ispirata alla storia vera di Sophia Amoruso, fondatrice del brand Nasty Gal (nome evocativo rubato ad una canzone di Betty Davis) che ha già raccontato la sua incredibile – quanto tradizionale – vicenda nel bestseller #GirlBoss – Come ho creato un impero commerciale partendo dal nulla, la serie è composta da 13 episodi da 24-29 minuti l’uno, ambientati intorno ai primi anni duemila, quando la giovanissima Sophia capisce che, col suo istinto anarchico perfino sul lavoro e l’inclinazione punk, non riuscirà mai ad avere dei capi che la possano sopraffare.
Preoccupata per il proprio futuro, a corto di soldi e costretta a sottoporsi ad una delicata operazione per un’ernia, la quasi ventenne attua un piano B che, col tempo, le frutterà oltre 100 milioni di dollari: appassionata di abiti vintage, si rende conto che nessuno vende capi decorosi e ben sistemati online. Così, si improvvisa imprenditrice di sé stessa, acquista alcuni vestiti, li rimette a nuovo, e si improvvisa fotografa.
Realizza dei photoshooting prima utilizzando lei stessa come modella, poi arruolando altre appassionate di capi vintage offrendo loro, in cambio, un hamburger. Carica le foto su eBay e il risultato è sorprendente: in soli otto anni il brand Nasty Gal cresce a tal punto da diventare un vero e proprio punto di riferimento nell’ambito della moda, spingendo la Amoruso a raccontare la propria storia di successo in un libro per poter diventare un’icona e un punto di riferimento per tutte coloro che vogliono intraprendere le sue stesse orme, pur non avendo alle spalle una famiglia facoltosa pronte a finanziarle e spalleggiarle.
GirlBoss: trailer ufficiale della serie Netflix con Britt Robertson
La serie Netflix Girlboss segue proprio Sophia – interpretata da Britt Robertson, che compare anche in veste di produttrice – a partire da uno dei momenti più oscuri della propria vita, immortalandola in quel delicato momento di passaggio tra la confusione e l’assoluta consapevolezza che, ogni percorso sbagliato intrapreso, ogni strada sbagliata, ogni errore commesso sono funzionali per la crescita del soggetto e per intraprendere la lunga strada verso una consapevole emancipazione emotiva, personale e soprattutto economica.
Il ritratto della Amoruso realizzato da Kay Cannon in fase di scrittura e dal regista Christian Ditter è quello di una tipica ragazza (all’epoca del suo successo) che appartiene alla categoria dei millennials, figlia a pieno titolo di questo ultimo, rutilante, secolo segnato da contraddizioni e veloci cambiamenti che ne hanno scandito le rivoluzioni: alla base del suo successo non c’è la fortuna quanto l’astuzia e il “fiuto”, la capacità di capire come sfruttare le potenzialità di un mondo ancora inesplorato – il web – prestando orecchio alle esigenze del pubblico e alle necessità del mercato, senza però mai rinunciare alla propria identità e alle proprie, personali, necessità.
Il pilot gioca molto proprio con i rimandi pop legati alla sfera culturale dei primi anni 2000, tra musiche e citazioni televisive al serial The OC, creando un suggestivo set up dei personaggi in attesa di vedere come, attraverso quali abilità, saranno in grado gli attori e la crew di restituire con la stessa freschezza e disinibita furbizia la scalata rampante di questa moderna Girlboss, indipendente figura femminile semplicemente al servizio di sé stessa.