Dopesick – Dichiarazione di Dipendenza, miniserie in 7 episodi creata da Danny Strong (Empire) e in uscita su Disney+ il 12 novembre, è interessante per almeno tre motivi. Intanto, la serie si propone di raccontare analiticamente l’evolversi di una delle piaghe che hanno colpito più duramente gli Stati Uniti negli ultimi anni – la cosiddetta crisi degli oppioidi -, di cui noi europei siamo venuti a conoscenza solo “di sguincio”, senza comprenderne appieno la portata epocale e devastante; in secondo luogo, lo fa da un punto di vista hollywoodiano, consentendoci di fare delle riflessioni su quanto, in questo caso, possa essere efficace una narrazione codificata (e per certi versi schematica).
Infine, ci permette di valutare quanto un argomento del genere possa suscitare il nostro interesse, spingendoci ad assumere un atteggiamento critico, volto ad indagare le ragioni storiche e sociali di un fenomeno che non ci coinvolge direttamente. Dal momento che Dopesick si presenta come una serie tagliata sul pubblico statunitense, il cui coinvolgimento emotivo è assicurato a prescindere dall’effettivo valore estetico e tecnico dell’opera, sorge spontaneo domandarsi se il risultato ottenuto sia abbastanza solido da garantire anche la partecipazione di chi è nato al di là dell’oceano.
Basata sul bestseller di Beth Macy Dopesick: Dealers, Doctors and the Drug Company that Addicted America, Dopesick – Dichiarazione di Dipendenza racconta un fatto di cronaca (l’immissione sul mercato dell’Oxycontin, l’antidolorifico a base oppiacea che scatenò una vera e propria “epidemia” di dipendenza negli strati più poveri d’America) servendosi di personaggi reali e personaggi fittizi: l’intreccio dei numerosi archi narrativi palesa, con drammatica efficacia, le catastrofiche conseguenze di una sequela di scelte di mercato tanto discutibili quanto scellerate. Nonostante l’iniziale scetticismo, l’affabile medico di base Samuel Finnix (Michael Keaton, il cui nome figura anche tra i produttori esecutivi della serie) inizia a prescrivere l’Oxycontin ai propri pazienti – per lo più minatori e operai, abitanti di una piccola cittadina del West Virginia–, persuaso dal giovane rappresentante Billy Cutler (Will Poulter). In particolare, viene messa in rilievo la vicenda di Betsy (Kaitlyn Dever), che diventa dipendente dal farmaco in seguito ad uno spiacevole incidente sul lavoro.
L’Oxycontin era stato commercializzato proprio in quello stesso anno, il 1996, dalla Purdue Pharma, società farmaceutica guidata da Richard Sackler (Michael Stuhlbarg), responsabile – come si vedrà soltanto in un secondo momento – di aver pubblicizzato il medicinale in maniera distorta, mentendo sugli effettivi rischi legati alla sua assunzione. Anni dopo, Rick Mountcastle (Peter Sarsgaard) e Randy Ramseyer (John Hoogenakker), avvocati della Procura di Stato, iniziano ad indagare sulla questione e a cercare – con difficoltà – prove a carico della Purdue Pharma, allo scopo di intentare una causa al colosso farmaceutico. Fondamentale sarà l’aiuto fornito da Bridget Meyer (Rosario Dawson), una volitiva agente della DEA che, tempo addietro, aveva casualmente scoperto un traffico illecito legato proprio all’Oxycontin.
Il racconto di Dopesick copre un arco temporale molto ampio, che parte dagli anni Ottanta (quando la Purdue Pharma cominciò a sviluppare il farmaco incriminato) e culmina negli anni Duemila, con il processo che sancirà la disfatta economica e morale della famiglia Sackler. Già dagli episodi iniziali – chi scrive questa recensione ha visto i primi tre – emergono i limiti e i pregi di una struttura narrativa fortemente frammentata, che alterna linee temporali diverse, all’evidente scopo di dirottare l’attenzione dello spettatore sul drammatico divario tra la cinica spregiudicatezza delle scelte messe in atto ai piani alti della Purdue Pharma e la tragica violenza degli effetti che queste avranno sulle persone comuni e inermi. L’obiettivo viene in parte centrato, anche in virtù delle ottime performance dei due attori principali.
Michael Keaton, che ritorna al piccolo schermo dopo The Company (2007), è eccezionale nel tratteggiare le contraddizioni di un personaggio come il Dottor Finnix: da medico irreprensibile, punto di riferimento nella piccola comunità di provincia, diventa (suo malgrado) complice di un’azione criminosa orchestrata, su larga scala, dalla spregiudicatezza di un manipolo di uomini di potere. Il Dottor Finnix, pur essendo l’ultimo anello della catena, è il simbolo di coloro che sancirono fattivamente (con il semplice e banale atto di firmare una prescrizione medica) la rovina fisica e psicologica di un numero indefinito di ignari pazienti. Nell’imbastire una riflessione sul concetto di responsabilità del singolo, Dopesick cala un’ombra oscura sul sistema sanitario (non solo statunitense), inducendo lo spettatore a rievocare tutte le volte in cui si è fidato, ciecamente e senza riserve, del proprio medico di base.
La vicenda del Dottor Finnix è legata a doppio filo a quella di Betsy, giovane minatrice costretta a fronteggiare, contemporaneamente, le insostenibili conseguenze fisiche di un infortunio sul lavoro e l’ostilità della famiglia, restìa ad accettare il coming out della figlia. Kaitlyn Dever (Unbelievable) interpreta, con struggente delicatezza, una giovane ragazza spezzata dal dolore; la bravura dell’attrice contribuisce a rendere palese il leitmotiv della serie, giungendo quasi a personificarlo: l’Oxycontin, con la sua illusoria promessa di guarire un dolore fisico, avrebbe potuto anestetizzare anche quella sofferenza più profonda, mentale, morbo silenzioso che infetta l’intera comunità coinvolta nella vicenda. Soffre Betsy, che vorrebbe sentirsi finalmente libera di essere sé stessa, alla luce del sole; soffre il Dottor Finnix, rimasto solo dopo la morte dell’amata moglie; soffre l’avvocato Ramseyer, attonito di fronte ad una terribile diagnosi; soffre il ragazzino qualunque, costretto a procacciarsi illecitamente un farmaco “miracoloso”.
I continui salti cronologici, per quanto funzionali a ribadire i nessi di causa-effetto tra eventi passati ed eventi futuri, rischiano tuttavia di minare la fluidità della serie, in un tour de force di digressioni ridondanti. Si ha quasi l’impressione che sceneggiatori, spinti da un fervore documentaristico, abbiano sentito l’ansia di non tralasciare alcun aspetto della vicenda: un atteggiamento vincente sulla carta, ma che nei fatti penalizza il lavoro di gran parte del cast. Questo è evidente, in particolar modo, nelle sequenze dedicate alle indagini, caratterizzate da una prolissità esasperata, che alla fine lascia poco spazio al sentimento di partecipazione ed empatia per le vicissitudini dei personaggi.
Gli avvocati interpretati da Peter Sarsgaard e John Hoogenakker, così come l’agente della DEA impersonata da Rosario Dawson, nonostante le loro tragedie personali, appaiono come figure piatte, il cui approfondimento psicologico (che sembra essere stato inserito soltanto per dare soddisfazione agli attori) si esaurisce e si spegne nel ruolo narrativo e didascalico che svolgono. Di contro, l’eccessiva (e quasi macchiettistica) caratterizzazione operata da Michael Stuhlbarg nell’interpretare Richard Sackler (il cattivo della situazione) appare altrettanto fine a sé stessa: e così, nell’esatto momento in cui ci domandiamo quanto ci sia di romanzato in ciò che stiamo vedendo, Dopesick rivela un’artificiosità involontaria, che contraddice il giusto intento della serie di restare ancorata alla realtà dei fatti.
Va comunque concesso che, nonostante le pecche, Dopesick riesce a tener salda l’attenzione dello spettatore, che si trova a sua volta avvinghiato nella rete di vili menzogne messe in atto dalla famiglia Sackler. Lo script, pur nelle sue ingenuità, non si perde in soluzioni di comodo ed evita il rischio di sacrificare la lucidità ad uno stucchevole patetismo, riuscendo a preservare un equilibrio (spesso fragile, va detto) tra cronaca e dramma. Superare quella linea sottile avrebbe potuto rappresentare un problema non di poco conto, trattandosi di una vicenda recente, le cui conseguenze continuano a pesare su una specifica fetta di popolazione statunitense.
Dopesick – Dichiarazione di Dipendenza ci immerge, infatti, nell’America rurale, quella degli invisibili, dei lavoratori sottopagati, delle vittime sacrificali di un sistema liberista, pronto a calpestarle da un momento all’altro, dopo essersi assicurato di averne sfruttato anche l’ultima briciola di forza produttiva. Siamo ben lontani dallo scintillìo delle grandi città e dal glamour delle riviste di moda: Dopesick ci mostra l’altra faccia degli Stati Uniti, e nei suoi momenti più riusciti sembra farlo (i primi due episodi sono diretti da un eccezionale Barry Levinson, e si vede) con una lucidità talmente estrema e distaccata da destare, a qualunque latitudine lo si guardi, l’inquietante consapevolezza che anche noi potremmo essere, un giorno, masticati e sputati da una società che ci chiede sempre di più e ci tutela sempre di meno.