“It’s only rock ‘n roll but I like it” cantavano i The Rolling Stones al culmine dei gloriosi anni ‘70: un’epoca d’oro di decadenza e splendore opaco, nella quale il glam incontrastato da gotha del rock iniziava a mostrare, inconsapevolmente, le crepe nella propria patina perfetta che di lì a breve si sarebbe sgretolata in mille frammenti, pronti a lasciare il posto alla plastica finzione edulcorata degli anni ‘80. Nei ‘70s il rock raggiungeva il proprio acme in quanto stile di vita e genere musicale simbolo della contestazione: la voce di Jim Morrison risuonava nel Vietnam dilaniato dalla guerra, Bob Dylan (in elettrico) accompagnava le marce per la pace e le ombre epiche – quanto contraddittorie – di Woodstock e Altamont si estendevano ancora lungo l’arco di un intero decennio.
È in questo contesto socio-culturale che la scrittrice Taylor Jenkins Reid ha ambientato il proprio romanzo best-seller Daisy Jones & The Six, scegliendo di raccontare – attraverso la storia fittizia di una band inventata – l’epopea rock ‘n roll di un’intera generazione perduta, costretta di lì a breve a fare i conti con un nuovo mondo ambizioso, pop, patinato e consumista. Inevitabile che qualcuno, prima o poi, decidesse di trasporre questo romanzo campione di vedite sul piccolo schermo delle piattaforme VOD.
Il compito è toccato a Reese Witherspoon, produttrice esecutiva, che ha affidato ai registi James Ponsoldt, Nzingha Stewart e Will Graham e agli sceneggiatori Scott Neustadter e Michael H. Weber l’ardua missione di dare spessore e corpo a Daisy e ai suoi sei compagni di avventure rocambolesche, sullo sfondo di una golden age perduta. Nel cast della limited series, che debutterà con i primi episodi su Prime Video dal 3 marzo, figurano Riley Keough (nei panni di Daisy Jones), Sam Claflin (Billy Dunne) e poi Camila Morrone, Will Harrison, Suki Waterhouse, Josh Whitehouse, Sebastian Chacon, Nabiyah Be, Tom Wright e Timothy Olyphant.
Daisy Jones & The Six narra l’ascesa e la precipitosa caduta di una famosa rock band. Nel 1977, Daisy Jones & The Six sono sul tetto del mondo. Guidata da due cantanti carismatici – Daisy Jones (Keough) e Billy Dunne (Claflin) – la band è uscita dall’anonimato e ha avuto un grandissimo successo, ma in seguito a un concerto sold-out al Soldier Field di Chicago sparisce. Ora, a distanza di decenni, i componenti della band hanno finalmente deciso di raccontare la verità. Quella che vediamo sullo schermo è la storia di come una band iconica è implosa all’apice del successo.
Per comprendere nel migliore dei modi le indiscrete sfumature che attraversano il progetto Daisy Jones & The Six, oltre a contestualizzarla su un piano storico-sociale, è necessario analizzare nel dettaglio il genere a cui appartiene: è sia un musical-drama, nel quale gli eventi più significativi sono legati a doppio filo dalla presenza di un tappeto sonoro imprescindibile che attraversa l’intero arco dei 10 episodi (e ricorda da vicino le eterne dinamiche alla base del successo di A Star Is Born), che un mockumentary capace di ibridare la tecnica del finto documentario con una ricostruzione (altrettanto fittizia) di fatti, eventi e persone plausibili ma mai esistiti.
Un’operazione simile, per certi versi, a due capisaldi della settima arte come Almost Famous di Cameron Crowe (storia verosimile di una rock band degli anni ’70 vista attraverso gli occhi di un giovane stagista di Rolling Stone, partito in tour con loro) e This Is Spinal Tap, il cult di Rob Reiner che segue (da falso documentario) le mirabolanti imprese di una band heavy metal… mai esistita nella storia della musica.

Un mondo ricco di sfumature contraddittorie
La seria Prime Video mescola delle interviste rilasciate dai membri dei The Six ben vent’anni dopo il loro scioglimento alla ricostruzione degli eventi; attraverso questi contributi video da documentario-testimonianza, non solo ripercorreranno la loro storia (pubblicata e privata) ma i veri motivi che li spinsero ad una fatidica rottura e allo scioglimento, in seguito ad un clamoroso concerto sold-out nella Chicago del 1977.
Un espediente narrativo brillante, senza dubbio, che spezza però il ritmo del racconto finendo per far somigliare tutto il resto ad una mera ricostruzione (appunto), a delle immagini sospese tra repertorio e messinscena fittizia che rievocano degli eventi sullo schermo che finiamo per vivere da spettatori passivi, mai realmente coinvolti sul piano emotivo oppure mossi da una certa empatia. La ricostruzione degli anni ‘70 (con un pizzico dei tardi ‘60) è ineccepibile e fin troppo dettagliata, confondendo di conseguenza la percezione dello spettatore: cioè che vediamo sullo schermo appartiene “davvero” a quell’epoca, oppure si tratta solo di una mera ricostruzione manieristica, dominata da dettagli perfetti ma concettualizzati, lontani dalle sbavature della realtà?
Il progetto Daisy Jones & The Six vive del riflesso della propria confezione patinata e perfetta, con un’estetica ineccepibile che solletica il piacere retinico ma tende a fluttuare lungo la superficie di cliché e topoi del genere, senza mai “sporcarsi le mani” fino in fondo, mostrando anche il lato più sordido e oscuro di un mondo ricco di sfumature contraddittorie. I protagonisti del racconto – la famosa Daisy Jones con la band dei The Six guidata dal cantante solista Billy Dunne – si muovono sulla scena ritrovandosi al centro di una stanza degli specchi che riflette innumerevoli versioni e rimandi alla realtà stessa: guardandoli, non solo sembra di assistere alle parabole di ascesa e caduta di innumerevoli rock ‘n roll band coeve del periodo, ma pare proprio di scorgere nei loro volti, nelle scelte estetiche e perfino nelle voci l’ombra dei Fleetwood Mac, doppelgänger spettrale (e reale) che sembra averne plasmato aspetto ed esiti sul piccolo schermo.
Per quanto la campagna promozionale abbia puntato tutto sulla scelta di ricreare, fin nei dettagli, il microcosmo degli inesistenti Daisy Jones & The Six, tra compilation, playlist su Spotify, Lp e singoli rilasciati sul mercato, lo spettatore fatica a sospendere fino in fondo la propria incredulità, ritrovandosi confuso a fluttuare tra luoghi comuni e situazioni che però solleticano, di sicuro, il piacere voyeuristico di scrutare dal buco della serratura del rock ‘n roll, osservando da un punto di vista privilegiato (quasi come una groupie qualsiasi) le situazioni comuni e le circostanze dirette che hanno accomunate molto delle stelle maledette di quel periodo, permettendo così a chiunque di vivere (o rivivere) l’ebbrezza di un’ultima cavalcata selvaggia in sella a quegli anni iperbolici, fatui, decadenti e irresistibili che sono stati gli anni ‘70.