Il noir è il genere che, meglio di molti altri, ha saputo scavare nelle oscurità insondabili dell’animo umano e nei punti ciechi delle metropoli, raccontando la realtà attraverso una grammatica specifica, ben codificata e riconoscibile. Un filtro privilegiato, un occhio particolare che spia nelle pieghe delle contraddizioni che animano gli esseri umani inquadrandoli in quel limbo sottile tra buio e luce, una zona grigia nella quale finiscono per aggirarsi come spettri in un desolante paesaggio urbano, complice l’oscurità della notte che tutto nasconde e il grigiore plumbeo dei palazzi tra i quali nascondersi.
Questi elementi cardine del genere sono ormai dei capisaldi, dei topoi imprescindibili che hanno attraversato trasversalmente ogni film anche se distante nello spazio e nel tempo fino ad arrivare ad oggi, in un’epoca definita come post-moderna nella quale tutte le storie sono già state raccontate. La vera difficoltà, oggi, consiste nel riuscire ad aggiornare questi codici linguistici ed estetici, traghettandoli in una nuova dimensione narrativa e percettiva, per accordarsi ai gusti di un pubblico sempre più smaliziato ed esigente. Ma non è un’impresa semplice quella di far breccia nel cuore di spettatori sempre più consapevoli di cosa vogliono e immortalati nella continua ricerca del posto giusto dove trovare ciò che stanno cercando, tra piattaforme e cataloghi sempre più nutriti e sconfinati.
Per cui è sempre una piacevole sorpresa quando un prodotto audiovisivo riesce in questa ardua missione, aggiornando i linguaggi del genere fino a contaminarli, tanto da trasformare quest’ultimo in un grimaldello atto a raccontare la realtà che ci circonda, ben saldo e radicato nella contemporaneità. E Apple TV+ dimostra ancora una volta la propria lungimiranza nell’investire in progetti dall’alto profilo, come dimostrato di recente con la commedia di Christos Nikou Fingernails – Una diagnosi d’amore: lontano però dai toni della romcom distopica, la piattaforma VOD abbraccia il procedural poliziesco, il thriller e – appunto – il noir tradizionale per accogliere gli otto episodi di Criminal Record, nuova serie che debutterà il prossimo 10 gennaio e che vede protagonisti Peter Capaldi e Cush Jumbo, immortalati in un serrato faccia-a-faccia tra bene e male, giusto e sbagliato.
Un’estetica scolpita dai chiaroscuri dell’esistenza
A Londra, un’improvvisa telefonata anonima riapre un vecchio caso, portando due brillanti detective a confrontarsi su quest’ultimo: lei – June Lenker (Jumbo) – è una giovane donna all’inizio della sua carriera, mentre lui – Daniel “Dan” Hegarty (Capaldi) – è un uomo ben inserito nella polizia locale con una lunga carriera alle spalle, ed è determinato a proteggere la sua reputazione ad ogni costo. I loro metodi, completamente diversi, così come l’approccio alle indagini che si svolgono tanto nel passato quanto nel presente per riavvolgere i fili di un drammatico caso di violenza, li spingeranno sempre di più l’uno contro l’altro, in una battaglia senza esclusione di colpi che li costringerà ad andare oltre i propri limiti, fino a sfidare le convenzioni e le regole. Lo spettatore si ritroverà quindi di fronte ad una nuova storia, dal sapore thriller, che porta la firma del candidato al Premio BAFTA Paul Rutman (Vera, Indian Summers), presente anche in veste di produttore esecutivo insieme alla vincitrice del BAFTA Scotland Award Elaine Collins (Shetland, Vera) e agli stessi Capaldi e Jumbo.
La bellezza di Criminal Record si annida nella sua capacità di riannodare, con intelligenza ed esperienza, i fili di una narrazione tradizionale quanto moderna, consapevole del passato per gettare uno sguardo nuovo sulle contraddizioni del presente. Le atmosfere nelle quali si muovono, come pesci in un acquario, i vari protagonisti coinvolti nella vicenda narrata sono tipiche del genere, del noir d’antan fumoso e grigio, con un’estetica scolpita dai chiaroscuri dell’esistenza e illuminata appena dai neon accecanti delle notti infinite. Il personaggio di Dan Hegarty, in particolare, è la quintessenza delle idiosincrasie dei grandi investigatori della letteratura e dello schermo, dal Marlowe creato da Raymond Chandler fino a quelli che popolano i romanzi di Mickey Spillane; anti-eroe hard-boiled tratteggiato dall’immaginaria penna di un James Ellroy pronto a scavare nelle oscurità insondabili di un’anima dilaniata.
A sottolineare questa atmosfera suggestiva, laconica e stropicciata, è l’altra grande star della serie, ovvero la città di Londra: metropoli cosmopolita e rutilante, melting pot diviso tra luci e ombre, attraversato da culture diverse che fanno fatica a convivere, ad integrarsi, così come a trovare un equilibrio in grado di garantire una stabilità, la capitale inglese è il set ideale per la vicenda narrata in Criminal Record. Perché il suo mood influenza i personaggi, gli atteggiamenti, forse anche i loro caratteri e le personalità, determinando le relazioni che intercorrono tra loro e che trasformano il prodotto finale in qualcosa di diverso rispetto alla media televisiva.
Il genere come lente ideale per riflettere su noi stessi
Perché l’Inghilterra è, a suo modo, la patria di un genere thriller-crime dalle sfumature neo-noir, tra indagini e sagaci investigatori (anche improvvisati) che riflettono, molto spesso, le asperità del paesaggio che li circonda e nel quale si muovono. Lo dimostrano grandi successi letterari e televisivi, figli della tv nazional-popolare e delle nuove piattaforme streaming; ma nell’approdare su Apple TV+ la serie di Rutman e Collins alza l’asticella diventando solo un mezzo per raccontare una realtà ben più complessa, concentrando la propria attenzione sui personaggi piuttosto che sull’indagine in sé, che finisce per diventare un mero espediente narrativo per mostrare – attraverso le immagini – un “qualcos’altro” ben più complesso.
E il focus della serie si annida nella volontà di analizzare una società come quella inglese contemporanea, alle prese con i problemi legati al razzismo, alla violenza di genere, alla mancanza di giustizia (e il conseguente abuso di potere), alle tensioni sociali e al fallimento delle istituzioni. Per tali ragioni, Criminal Record riconferma ancora una volta quanto il genere sia la lente ideale – e, talvolta, deformante – per riflettere noi stessi e il mondo in cui viviamo sulla sua superficie, cercando di interpretare il nostro quotidiano.
E l’altra particolarità di questo prodotto seriale audiovisivo passa per la volontà (ferrea) di filtrare tutto attraverso la sensibilità e lo sguardo della protagonista June, perché Hegarty è lo spettro che la perseguita, la sua nemesi “in negativo” che rappresenta tutto ciò che lei non è, incarnando un mondo – maschile, patriarcale, corrotto, ambivalente – al quale lei non appartiene ma nel quale è immersa e che si ritrova a dover fronteggiare ogni giorno, cercando di affermare se stessa in una realtà ostile che la pregiudica per innumerevoli ragioni (sesso, etnia etc. etc.), costringendola a dover tirare fuori ad ogni costo la sua voce, ruggendo per ritagliarsi un proprio spazio vitale.
Così il personaggio di June, leonessa a capo di un branco di altri personaggi femminili memorabili tratteggiati nella serie, diventa l’incarnazione di un nuovo femminile cine-televisivo che avanza, che fa breccia in generi da sempre canonizzati che guardano al maschile e riducono le donne a delle figure fisse, presenze di supporto in narrazioni che oggi trovano, finalmente, nuove chiavi di lettura e nuove voci in grado di raccontarle.