Christian è la nuova serie supernatural crime drama prodotta da Lucky Red e Sky pronta a debuttare, il 28 gennaio, su Sky Atlantic e in streaming su NOW. Nata da un’idea di Roberto “Saku” Cinardi e liberamente ispirata a Stigmate, la graphic novel di Claudio Piersanti e Lorenzo Mattotti, Christian vede al timone della regia dei sei episodi i registi Stefano Lodovichi (La stanza), presente anche come produttore creativo, e lo stesso Cinardi; davanti la macchina da presa, invece, troviamo Edoardo Pesce (Dogman, Permette? Alberto Sordi) nei panni del protagonista e Claudio Santamaria (Freaks Out), Lina Sastri, Giordano De Plano, Antonio Bannò (tutti protagonisti delle nostre videointerviste) e Silvia D’Amico al suo fianco.
Christian è lo scagnozzo di un boss della Roma di periferia – un posto chiamato “Città Palazzo” – che si guadagna da vivere facendo l’unica cosa che sa fare: menare. Fino a quando non gli compariranno al centro delle mani quelle che sembrano a tutti gli effetti delle stimmate, le ferite dei santi, con le quali inizierà a fare miracoli. Sulle sue tracce e su quelle – più evidenti – del suo mistero si metterà presto Matteo, scettico emissario del Vaticano ossessionato dal trovare qualcuno i cui poteri taumaturgici siano veri e non un’ennesima, macabra, truffa.
Christian è pronta a scardinare le regole convenzionali della serialità contemporanea, semplicemente applicando una formula vincente ma ardita: quella della commistione di generi, mescolando insieme suggestioni, derive e canoni che appartengono a mondi narrativi diversi, prendendo in prestito il necessario dagli stimoli forniti da media vecchi e nuovi fino a rielaborarli in una soluzione ultra post-moderna che strizza l’occhio alla realtà fenomenica che ci circonda. E se, a livello tecnico, il termine pulp può essere tradotto liberamente come “pasticcio”, mai come in questo caso una serie è capace di ergersi a simbolo di un intero universo narrativo, in grado di mantenere viva l’attenzione degli spettatori e un fil rouge costante tra i dialoghi che intercorrono tra generi diversi.
La serie viene infatti presentata come un supernatural crime drama, strizzando l’occhio a tendenze contemporanee di successo soprattutto sul mercato internazionale (i film a base di supereroi “a stelle e strisce” che hanno ormai colonizzato il nostro immaginario; il crime che è una garanzia soprattutto nella serialità italiana e porta con sé una certa gravitas di situazioni, luoghi e personaggi) ma che, in parte, risultano ancora inesplorate dalla serialità europea. Di supereroi se ne vedono davvero pochi sugli schermi – grandi o piccoli – ed è per tale motivo che il richiamo più evidente, che scatta nella mente dello spettatore, è quello con Lo chiamavano Jeeg Robot (come è emerso durante la conferenza stampa), il film di Gabriele Mainetti che ha rivoluzionato il cinema italiano degli ultimi anni aprendolo a nuovi orizzonti narrativi.
E anche se potrebbe sembrare facile l’atto di stilare un elenco delle similitudini che legano il film di Mainetti a Christian – l’ambientazione popolare romana, la presenza della periferia con le sue contraddizioni, certi topoi, l’ispirazione al mondo del fumetto etc. –, risulta sicuramente più interessante mettere a fuoco quella che è la grande differenza che li separa, trasformando la serie Sky in un altro unicum di cui godere (quasi in parallelo): il tempo. La vera discriminante è la possibilità, propria del mondo seriale, di poter ampliare gli orizzonti narrativi grazie ad un tempo dilatato, un rutilante nastro che si srotola di puntata in puntata permettendo di restituire un approfondimento psicologico dei personaggi via via sempre più complesso e stratificato, giocando anche con le variabili costanti dello spazio-tempo e piegandole al volere drammaturgico, tra digressioni nel passato e bruschi ritorni al presente.

La scelta di Lodovichi e Cinardi è stata quella di puntare ad un’estetica specifica, patinata ma ruvida, suggestiva e plumbea, capace di rispecchiare la varietà del microcosmo emotivo di situazioni, luoghi e persone in cui si muovono Christian e gli altri personaggi. “Città Palazzo”, questa Babele senza nome, è un non-luogo dove archetipi e topoi di genere prendono vita differenziandosi gradualmente, grazie alla presenza di un passato e di ferite tragiche che ognuno di loro porta con sé, fino a lasciarsi definire da questi stessi elementi. Dettagli che permettono a personaggi nati sulla carta, e divisi tra tv e fumetto, di acquisire un approfondimento psicologico notevole, una tridimensionalità che si stratifica con il procedere delle puntate.
Ciò che emerge dalla visione dei primi due episodi è che Christian cerca di cavalcare la via dei generi, spaziando tra il linguaggio del supernatural, del crime, del drama, della commedia nera e di quella tipicamente all’italiana per raccontare la realtà, leggendola attraverso una lente deformante che proietta, davanti allo sguardo attonito degli spettatori, un mondo grottesco ma plausibile. Un universo stilizzato (e qui si vede un’eredità della Nona Arte, come nei personaggi un legame con la Settima) nel quale fluttuano personaggi alla deriva in attesa di “qualcosa”, di un miracolo che inneschi la miccia del cambiamento, capace di accendere il fuoco inestinguibile della trasformazione radicale che è tallonata dalla continua presenza ingombrante del passato, tragico e significativo bagaglio di cui liberarsi ad ogni costo per poter cambiare.
Christian è un universo narrativo complesso e pulp capace di creare un dialogo costante tanto tra i generi quanto tra media differenti; il risultato è un affresco ricco di suggestioni e stimoli, pop e ben radicato nella nostra realtà contemporanea, che è in grado di rileggere attraverso un’ottica privilegiata che ne evidenzia idiosincrasie e potenzialità a partire da un potente – e classico – What If…?: e se un uomo qualunque fosse investito di poteri da cui derivano solo grandi responsabilità?
Già nel corso dei primi due episodi si iniziano così a delineare gli scenari narrativi che domineranno la serie, inaugurando una teoria di personaggi alle prese con la portata di questa rivelazione. Personaggi nei cui panni si calano gli attori giusti (al momento giusto), picari alla deriva della grande commedia (all’italiana) dell’esistenza o anti-eroi dal sapore shakespeariano che si muovono sullo sfondo di una periferia romana; characters ai quali gli interpreti hanno prestato corpi, anime e sguardi per abbracciare i loro segreti tratteggiati in chiaroscuro, in quel limbo sottile che si muove tra luce e ombra.