Questa dovrebbe essere una recensione della serie francese Becoming Karl Lagerfeld, disponibile dal 7 giugno su Disney+. E lo sarà, inevitabilmente. Ma sarà anche una celebrazione di Daniel Brühl. Non solo perché l’attore tedesco impersona, con la sua consueta bravura, lo stilista, ma anche perché la sua interpretazione è probabilmente l’unica ragion d’essere di una serie a conti fatti deludente. Ma lo vedremo in seguito.
Intanto, torniamo al nostro attore: sono passati più di vent’anni dall’uscita del film che ha lanciato la sua carriera, Good Bye Lenin!, e di strada Brühl ne ha fatta parecchia, spaziando da film impegnati (spesso europei) a prodotti più mainstream. Facilitato probabilmente dall’eccellente plurilinguismo che lo contraddistingue (parla correntemente francese, inglese e spagnolo, ma anche con l’italiano non se la cava male), l’interprete tedesco si è ritagliato uno spazio considerevole nel cinema contemporaneo, riuscendo spesso anche a evitare di incappare in personaggi eccessivamente stereotipati, come spesso accade agli attori stranieri che trovano fortuna a Hollywood. La sua capacità di immedesimarsi in figure molto diverse tra loro, nonché l’eleganza naturale che imprime ai suoi alter-ego sul grande e piccolo schermo (siano essi eroi o villain), sono encomiabili.
Insomma, non dev’essere facile passare dall’anarchico catalano Salvador Puig Antich in Salvador – 26 anni contro al reduce divenuto stella del cinema teutonico Frederick Zoller in Bastardi senza gloria, così come da Niki Lauda in Rush al perfido Helmut Zemo del Marvel Cinematic Universe. E dev’essere senz’altro arduo mantenere credibilità quando ti trovi malauguratamente a far parte del cast di un film o una serie dove poco o nulla si salva. È il caso, ad esempio, del recente Race for Glory: Audi vs. Lancia di Stefano Mordini, sorta di scimmiottamento del ben più riuscito Le Mans ‘66 – La grande sfida di James Mangold, ma anche della citata serie su Lagerfeld, creata da Isaure Pisani-Ferry, Jennifer Have e Raphaëlle Bacqué e ispirata alla vita del celebre stilista.
Vita e amori di un’aspirante stilista
Chi ha conosciuto Karl Lagerfeld in tarda età, avrà impresso nella memoria l’austerità dei suoi vestiti eleganti, i suoi occhialoni neri, i capelli argentei raccolti in un codino spavaldo, e magari anche il gatto sacro di Birmania che – leggenda vuole – abbia rubato a un amico per farlo diventare parte di un brand spesso declinato in versione kitsch e incentrato sulla figura dello stilista. Lagerfeld medesimo, dunque, come uomo immagine del proprio brand, come modello iconico. Non è però sempre stato così. Perché la storia dello stilista inizia paradossalmente con la scelta di mantenere (per quanto possibile) l’anonimato. Già, perché se oggi la figura stilizzata di Lagerfeld è riprodotta un’infinità di volte in oggetti vari (magliette, borse, penne, ecc.), un tempo la visibilità dell’artista era celata dalla timidezza.
È proprio su questo aspetto che si concentra la serie Becoming Karl Lagerfeld, che segue la nascita e l’affermazione dello stilista dal 1972, quando dopo anni di collaborazioni diventa direttore artistico del marchio Chloé, al 1981, anno segna un cambiamento importante nella sua carriera grazie alla chiamata di Chanel. Sono anni intensi, nei quali il giovane (ma non giovanissimo) Karl sembra poco interessato a dare una svolta ambiziosa alla sua carriera. Forse anche per paura di doversi confrontare con l’ex amico Yves Saint Laurent (Arnaud Valois), in quel momento già all’apice del successo.
Per questo motivo la sua vita scorre nell’ombra. Tra l’ossessione per il lavoro e un privato contraddistinto quasi esclusivamente dal rapporto tormentato con la severa madre Elisabeth (Lisa Kreuzer) che non si tira mai indietro quando c’è da criticare il figlio. Ma la volontà di dimostrare il proprio valore, sopita per molto tempo, induce Karl a superare (parzialmente) le sue insicurezze per intraprendere la carriera di direttore creativo. Mentre nel privato, l’incontro con il dandy Jacques de Bascher (Théodore Pellerin) metterà a soqquadro la sua vita, complice l’infatuazione per il giovane da parte di Yves Saint Laurent, in quel momento legato sentimentalmente al severo Paul Bergé (Alex Lutz).
Ma la storia dell’artista?
Il primo aspetto che balza all’occhio, riflettendo su Becoming Karl Lagerfeld, è che la serie, pur raccontando dieci anni (oltretutto cruciali) nella carriera dello stilista tedesco, pare più interessata ai pruriginosi risvolti della sua vita privata che alla sua evoluzione artistica. Durante le puntate vediamo sovente Karl disegnare abiti alla sua scrivania, ma non siamo mai davvero condotti per mano alla scoperta del suo genio. Il processo creativo dell’artista rimane fuori campo, come se fosse un aspetto marginale della sua vita. Così l’arte è oscurata dal resoconto relativo alle scelte professionali dello stilista e, ancor di più, alla sua vita privata. Gran parte del racconto, infatti, è focalizzata sulla storia d’amore (platonico) tra Karl e Jacques de Bascher, personaggio contraddittorio della Parigi tra anni ‘70 e ‘80 che lo stesso Lagerfeld definì così: «Non ho mai conosciuto uomini più chic ed eleganti in Francia. Era una sorta di personaggio mefistofelico con il volto di Greta Garbo».
Un ritratto breve ma ricco di particolari che ha probabilmente ispirato la definizione del personaggio nella serie: giovane rampollo di una famiglia aristocratica parigina con confuse ambizioni artistiche, una spasmodica voglia di vivere, un fascino capace di far capitolare chiunque e un’anima perversa che lo porta a recitare (spesso al contempo) sia la parte della vittima che del carnefice. Una liaison non esclusiva, comunque, quella tra lui e Karl, dato che il buon Jacques – vuoi per attirare l’attenzione dell’amante distratto, vuoi per ambizioni sentimentali – si concede anche all’acerrimo nemico di Karl, Yves Saint Laurent, che per lui perde la testa (e pure il senno); generando, oltretutto, una furiosa guerra tra i due vecchi amici nel privato che ben presto diventa di pubblico dominio a causa di Pierre Bergé, sempre pronto a screditare e umiliare (i presunti) rivali del protetto.
Questa concentrazione sulla sfera privata relega dunque in secondo piano il Karl Lagerfeld artista, ma allo stesso tempo penalizza anche la descrizione del significativo cambiamento che stava avvenendo nella moda in quel momento storico. Sebbene se ne parli, ad esempio, non è mai davvero approfondito il rapporto conflittuale tra haute couture e prêt-à-porter (banalmente: la prima si credeva superiore alla seconda), e gli screzi ideologico-artistici-imprenditoriali che si manifestarono a cavallo tra anni ‘70 e ‘80 tra i maestri conclamati della moda (Saint-Laurent, lo stesso Lagerfeld) e le nuove agguerrite leve decise a portare una ventata d’aria fresca allo stile imperante in quegli anni.
Una serie insufficiente, tenuta a galla da un grande attore
La concentrazione (quasi) esclusiva sulle vicende private di Lagerfeld non giova dunque alla serie. Certo, per chi non sa nulla della carriera dello stilista nelle prime puntate è interessante scoprire qualcosa di più sulla sua vita e sul suo carattere schivo e riservato, così come sulle sue angosce e le sue paure. Alla lunga, però, si sente la mancanza di un cambio di prospettiva capace di mettere in risalto anche la sua storia artistica e si avverte una certa stanchezza narrativa, una ripetitività e insistenza nella descrizione della complicata vita privata dello stilista e nel tratteggio estremo di molti personaggi (da Saint-Laurent a de Bascher). Alla fine, a rimanere impresse sono le affascinanti musiche di Evgueni Galperine e Sacha Galperine, e ovviamente la prova di Daniel Brühl.
Proprio la performance dell’attore tedesco merita di essere esaltata per la capacità di restituirci un personaggio esternamente monacale e austero, ma pervaso interiormente da un fuoco creativo e ossessivo che divampa in sentimenti spesso negativi: paura, angoscia, frustrazione. Allo stesso tempo, seppur ricercando di replicare la gestualità, la postura, il modo di camminare dello stilista, Brühl non sembra mai né imitarlo né scimmiottarlo. Conferisce, al contrario, credibilità al personaggio. Per questo motivo, anche se annoiati dall’incedere dei talvolta futili accadimenti che la serie racconta (ad esempio, il tira e molla tra i due amanti), si rimane comunque catturati dal fascino di un attore che – come si usava dire una volta – “buca lo schermo”.
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