Altered Carbon è la nuova serie targata Netflix disponibile a partire dal 2 febbraio in dieci episodi da 45’-50’ minuti ciascuno.
Adattando per il piccolo schermo il primo capitolo della saga cyberpunk scritta da Richard K. Morgan – uscita in Italia come Bay City, al posto dell’omonimo titolo originale – la prima stagione della serie è stata ideata da Laeta Kalogridis che già nel 2002, anno d’uscita del primo capitolo delle avventure del “detective per necessità” Takeshi Kovacs, aveva acquistato i diritti per trasformarlo in un lungometraggio, incontrando però l’ostilità delle major nei confronti delle tematiche a tinte forti.
Solo oggi, a distanza di anni e grazie alla politica di sperimentazione targata Netflix, Altered Carbon può compiere il suo grande debutto, conquistando nuove schiere di spettatori.
Nell’anno 2384 l’identità umana può essere immagazzinata su di un supporto digitale trasferibile da un corpo all’altro, permettendo agli esseri viventi di sopravvivere alla morte fisica e facendo in modo tale che i loro ricordi e la loro coscienza possano essere “inseriti” in nuovi corpi.
Questa tecnologia sofisticata è il lascito di una civiltà aliena estinta per oscure ragioni, nel momento stesso in cui sono riusciti ad abbattere definitivamente i concetti di morte e tempo, le ultime due coordinate democratiche rimaste. Nella San Francisco del futuro – chiamata Bay City – i ricchi (detti “Matusalemme”) possono vivere in eterno trasmigrando le proprie coscienze da un corpo all’altro, mentre ai poveri spettano soluzioni scarse, temporanee o l’inesorabile rassegnazione davanti alla fine.
Takeshi Kovacs (Joel Kinnaman), ex membro di speciali unità militari, viene ucciso e scaricato nel corpo che era in precedenza di Elias Ryker, agente di polizia di Bay City, per volere di Laurens Bancroft (James Purefoy), un facoltoso e potente aristocratico dall’età biologica di 350 anni che si è apparentemente suicidato, perdendo tutti i ricordi delle 48 ore antecedenti la propria morte.
L’uomo è convinto di non essersi suicidato e ingaggia così Kovacs per indagare su quello che considera il proprio omicidio; al “detective per necessità” non resta altro da fare che indagare per salvare se stesso, evitando di finire nuovamente “congelato” per via dei propri crimini.
Altered Carbon recensione: un futuro non improbabile, ma plausibile
Altered Carbon (qui il trailer) è una serie figlia dei tempi Netflix ma con un DNA fantascientifico: a livello visivo ed estetico deve molto agli ultimi distopici, maturi e dark creati a livello letterario da Philip K. Dick e, a livello cinematografico, da Blade Runner, Strange Days e Matrix (solo per citarne alcuni). Lo squarcio sul futuro mostrato non è mai luminoso ma sempre crepuscolare, cyberpunk e oscuro; le intelligenze artificiali e gli esseri umani co-esistono ma l’equilibrio è sempre fragile, a un passo dal letale punto di rottura.
La forza di questa serie si annida dietro la patina da tradizionale noir hard-boiled, dietro la voce narrante del detective schivo e dallo sguardo malinconico, dietro i segreti e i misteri che oscurano il cielo gravido che si affaccia su Bay City: l’abilità di K. Morgan – che lo ha reso, in breve tempo, uno degli autori più apprezzati nei circuiti sci-fi – risiede nella capacità di sollevare dei dubbi morali, dei dilemmi etici profondi e contraddittori.
Il futuro creato in Altered Carbon non è improbabile, ma plausibile: dove andrà a finire la nostra civiltà? Fino a che punto ci spingeremo una volta che saranno saltati tutti i capisaldi che hanno tenuto insieme i fragili frammenti del mosaico della Vita? S
e l’autore, nei tre capitoli della saga, prova a sollevare e a fornire – allo stesso tempo – delle risposte, altrettanto non fa la serie: per Netflix è più importante il “pacchetto completo”, la cornice, lo splendido “fodero” scenico nel quale si muove Kovacs.
Proprio come i corpi-involucri nel quale si reincarnano i ricchi del futuro, anche Altered Carbon installa vecchi dubbi da nuovo millennio in un abito nuovo, scintillante, figlio della moderna fruizione seriale, competitiva quanto il cinema ma con un’anima molto meno complessa per “esigenze di copione”.