Non ci sono dubbi, ancora di più osservando il fenomeno a distanza di anni, con il privilegio del senno di poi, che Romanzo criminale – La serie abbia contribuito in modo sostanziale al raggiungimento della maturità di parte della nostra produzione seriale. La prima serie moderna italiana di qualità, capace di elevarsi a vera e propria opera di culto, tanto da risultare appetibile anche a certo pubblico internazionale (il grande successo ottenuto anche in paesi come la Francia). Fra i maggiori responsabili dietro a questa rivoluzione televisiva nel segno del crime, poi continuata con Gomorra – La serie e Suburra – La serie, sono sicuramente da annoverare sia la casa di produzione Cattleya che il regista Stefano Sollima, principale demiurgo di tutto l’immaginario poliziesco nostrano contemporaneo. Un autore destinato a portare il suo approccio dedito al genere anche sul grande schermo.
Era l’ormai lontano 2012, infatti, quando ACAB – All Cops Are Bastards arrivava nelle sale. Un film anomalo e controverso per il contesto cinematografico italiano, abituato a vedere approcciati certi argomenti, come la violenza delle forze dell’ordine, attraverso gli occhi del cinema politico e di denuncia (lo stesso anno era uscito l’angosciante Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari, sui fattacci del G8 di Genova), non del puro genere. Sollima tratteggia i suoi celerini come i classici dirty cop del noir, personaggi grigi e pieni di caratteristiche negative, tanto da risultare spesso sgradevoli, ma senza rinunciare ad umanizzarli. Una scelta divisiva, che ha portato a reazioni contrariate, se non ostili, soprattutto da parte di certi ambienti di sinistra. Senza il distacco garantito dal contesto straniero dei film americani, è logico che un tale approccio alla materia generi forti reazioni, soprattutto da parte di persone politicamente attive, spesso coinvolte in manifestazioni e varie forme di dissenso.
Il ritorno di un soggetto controverso
Il genere è vissuto non come la semplice volontà di raccontare una storia di finzione ambientata in un determinato mondo, con le sue dinamiche e le sue regole, ma come la totale aderenza del pensiero dell’autore a quello dei suoi personaggi. Cosa naturalmente sbagliata, seppur comprensibile (è normale che persone con determinate esperienze e sensibilità abbiano forti reazioni emotive a certi soggetti). Sarebbe come affermare che chi realizza film sui gangster condivida la condotta criminosa dei suoi antieroi. È probabilmente destinata a ravvivare la controversia ACAB – La serie, disponibile su Netflix dal 15 gennaio. Sei episodi per cui Sollima torna in veste di produttore esecutivo, mentre l’onere della regia passa a Michele Alhaique, professionista con esperienze in produzioni come Romulus e Bang Bang Baby. La serie è stata ideata per il piccolo schermo da Carlo Bonini, anche autore dell’omonimo libro, insieme a Filippo Gravino, tra gli sceneggiatori del dittico sulla fondazione di Roma formato da Il primo re e dalla succitata Romulus.
Durante una missione in trasferta in Val di Susa, una squadra di celerini della mobile di Roma capitanata da Mazinga (Marco Giallini), dopo il ferimento del collega Pietro (Fabrizio Nardi), cerca vendetta nei confronti di alcuni manifestanti No TAV. Il risultato è un’aggressione violenta e ingiustificata ai danni di un gruppetto di ragazzi indifesi, ritiratisi a riparo nei boschi. Uno degli aggrediti viene ridotto in modo tale da finire ricoverato e in coma, in bilico tra la vita e la morte. La procura di Torino avvia subito un’indagine per scovare il responsabile, tra l’omertà generale degli agenti del reparto romano. Una spada di Damocle che pende sulle teste dell’affiatato gruppo di celerini, che deve già affrontare non solo le sfide quotidiane del proprio sporco lavoro, ma anche diversi problemi di natura privata e familiare. La situazione che si viene a creare è una bomba a orologeria pronta a esplodere, mentre crescono la disaffezione e l’odio nei confronti delle forze dell’ordine.
Una serie che migliora quasi ogni aspetto del film
ACAB – La serie mette in scena una narrazione indipendente dalla pellicola originaria, dove l’unico anello di congiunzione è rappresentato dal personaggio di Mazinga, l’unico a ritornare. Un Mazinga più anziano e navigato, leader naturale e punto di riferimento per i suoi colleghi più giovani. Ma anche sempre più disilluso e stanco di quella vita, oltretutto causa principale dietro la perdita del rapporto con suo figlio, che non gli parla più da tempo. Al fianco del veterano Giallini, un gruppo inedito di personaggi, molto diversi fra loro e afflitti dai più disparati problemi di natura personale, che andranno a sommarsi alle tensioni lavorative. Presente, per la prima volta, la figura di una “celerina” femmina, Marta (Valentina Bellè), madre single che si rifiuta di lasciare la figlia all’ex marito, visto il suo passato da alcolista violento. C’è Nobili (Adriano Giannini), nuovo caposquadra trasferito da poco da Senigallia, disprezzato dagli altri agenti per aver testimoniato in aula contro gli abusi di alcuni colleghi. Un personaggio dallo spirito sicuramente più moderato dei suoi compagni, ma che l’ambiente romano, unito ad alcuni gravi problemi familiari, rischia definitivamente di spezzare.
Questa nuova incarnazione di ACAB, forse anche più dell’omonimo film, cerca di umanizzare i suoi ambigui protagonisti, complice anche la durata più corposa del formato seriale, che offre la possibilità di passare più tempo con loro, approfondendo nel dettaglio il loro vissuto e le loro psicologie (Salvatore, interpretato in modo convincente da Pierluigi Gigante, con la sua immaturità e vulnerabilità emotiva, quasi da adolescente). I violenti e omertosi celerini spesso vengono presentati come ingranaggi del sistema, costretti a svolgere compiti scomodi, ritenuti da loro stessi ingiusti (lo sgombero di cittadini, anche anziani, che protestano per la riapertura di una discarica). Ma la serie riesce nel difficile equilibrismo di umanizzare questi personaggi senza però mai assolverli dagli abusi e dai crimini che si ritrovano a commettere, cosa per niente semplice.
La regia di Alhaique, poi, risulta davvero efficace nel costruire la tensione montante delle azioni sul campo, dove spesso irrompe un caos incontenibile (come si ritroverà ad affermare Mazinga, “è come la guerra”). Il tutto ambientato perlopiù in una Roma sicuramente non da cartolina, quella delle periferie grigie e degradate, fotografata con toni cupi, dove dominano gli ocra e i freddi verdolini dei neon. Una confezione di alto livello, che molti definirebbero internazionale, con una colonna sonora che alterna artisti nostrani, come Vasco Rossi, a pezzi cantati in inglese. ACAB – La serie non solo è una delle migliori produzioni originali Netflix italiane, ma riesce anche a superare l’originale pellicola diretta da Sollima, migliorandone quasi ogni aspetto.