Un gruppo di facoltosi invitati si riunisce: dopo una serata all’insegna di antipatie malcelate, frecciatine al vetriolo e banali chiacchiere di circostanza, ci scappa il morto. Chi sarà stato? A Murder at the End of the World, miniserie in 7 episodi creata da Brit Marling e Zal Batmanglij (già autori di The OA) e in uscita su Disney+ a partire dal 14 novembre, ripropone il più classico dei canovacci da romanzo giallo.
Quello della “cena con delitto”, con tutte le sue innumerevoli varianti, è un filone che viene periodicamente riesumato da cinema e televisione: si pensi ai recenti Cena con delitto o Glass Onion, giusto per citarne un paio. Si tratta di un ottimo contenitore per veicolare un intrattenimento senza pretese eppure brillante ed arguto, e quindi particolarmente caro agli spettatori di ogni età. E infatti, pur eleggendo a propria eroina un’esponente della Generazione Z, A Murder at the End of the World riesce a coinvolgere un pubblico ben più ampio, forse proprio in virtù del suo ricorso ad una serie di stilemi noti più agli adulti che ai giovanissimi. A dispetto dell’inverosimiglianza della trama, si tende quindi ad accettare di buon grado la sospensione dell’incredulità e a godersi lo spettacolo senza troppe remore.
La ventiquattrenne Darby Hart (Emma Corrin, nota ai più per il ruolo di Diana Spencer in The Crown) viene invitata dal miliardario Andy Ronson (un Clive Owen in forma smagliante) per partecipare, insieme ad un gruppetto di geniacci del mondo tech, ad un misterioso raduno in una località sperduta dell’Islanda. Darby Hart viene precettata in occasione di una lettura pubblica del suo libro autobiografico, dove raccontava la risoluzione di un inquietante caso di omicidi seriali. Darby e Bill Farrah (Harris Dickinson), il suo fidanzato dell’epoca, avevano scovato il serial killer grazie alle rispettive conoscenze in fatto di sicurezza informatica e hackeraggio di informazioni riservate. Darby e Bill si rincontreranno proprio nella tenuta scandinava di Ronson, ignari della vera ragione dell’invito. La prima sera, poco prima di andare a letto, Darby assiste inorridita e impotente alla morte di uno degli invitati. Mentre Andy minimizza, Darby è convinta che si tratti di omicidio e inizia ad indagare.
Un racconto unitario e coerente
A Murder at the End of the World fa della contaminazione tra generi la sua cifra: al racconto centrale e calato nel presente, ispirato al modello ideato da Agatha Christie, fanno da contrappunto i flashback, che rimandano invece al thriller hard-boiled di stampo nord-europeo. La particolarità e il pregio della serie risiedono non tanto nello switch tra generi differenti (fanno capolino anche il romance e il racconto distopico a sfondo tecnologico à la Black Mirror), quanto nella disinvoltura con cui i creatori portano a casa un racconto unitario e coerente, sebbene retto da un pot-pourri di suggestioni contrastanti tra loro.
Le imbarazzanti banalizzazioni in materia di tecnologia e la semplificazione al limite dell’assurdo del genere thriller vanno guardate con la giusta indulgenza, concentrandoci sul quadro generale e non sul singolo dettaglio. Marling e Batmanglij, più che ad una credibilità tout court, sembrano essere interessati alla coerenza dei personaggi, intesi più che altro come strumenti per rappresentare efficacemente l’idea di fondo della serie. Questa emerge poco a poco, fino ad esplodere nei due sconvolgenti episodi conclusivi, assai godibili anche agli occhi dello spettatore più scettico. Darby da un lato, con il suo idealismo e la sua ricerca ossessiva di verità e giustizia, e Andy dall’altro, una versione tormentata e seriosa di Elon Musk, sono espressione di atteggiamenti diversi, ma egualmente estremi.
Alla contrapposizione tra queste due figure viene affidato il nucleo tematico dell’opera, incentrato sui risvolti potenzialmente catastrofici di una tecnologia che si nutre delle paranoie e della sete di controllo dei suoi utenti. La condotta da prendere a modello è quella adottata dal personaggio di Bill Farrah, provvisto, sì, di un certo candore, ma comunque con i piedi ben piantati a terra, conscio che non tutto ha una spiegazione logica, a maggior ragione se si sta parlando di scelte e azioni dettate dall’istinto o dalla fallibilità umana.
A ben vedere, A Murder at the End of the World parla di umanità più che di macchine e, proprio per questo, il panorama che descrive risulta ancor più desolante: governati da paure ataviche e da emozioni sconvenienti, alle prese con una società incapace di far fronte alle nostre insicurezze, ci affidiamo ai computer, sperando di trovare in loro quelle rassicurazioni che nessun altro è in grado di darci. L’attualità dell’argomento, unita all’urgenza di consegnare al pubblico un prodotto avvincente e ricco di stimoli, deve aver condotto però al difetto principale di A Murder at The End of the World: la prolissità.
Comunicare l’inquietudine e l’isolamento
Le numerose divagazioni superflue e noiose (specie negli episodi centrali) più che aggiungere interesse, tolgono efficacia al racconto. Nonostante questa verbosità – settanta minuti ad episodio sono veramente troppi per un prodotto del genere -, la serie resta miracolosamente ancorata al suo fulcro tematico, già di per sé piuttosto ostico e delicato. Anche se in modo talvolta sconclusionato, la serie riesce a comunicare una buona dose di inquietudine. Chi sta dietro la macchina da presa sa quello che sta facendo, specialmente quando si tratta di delineare con efficacia l’atmosfera di isolamento, resa ancor più suggestiva dal largo impiego di campi lunghi, con le insignificanti figure umane che si perdono nell’indifferente maestosità del paesaggio norreno.
L’estetica è certamente un tramite, assai gradevole, per raggiungere il nodo della questione: non siamo ancora arrivati agli estremi descritti dalla serie, ma ci siamo vicini. Basti pensare al dibattito, quantomai attuale, sull’intelligenza artificiale e su Chat GPT, rispetto al quale A Murder at the End of the World prende una posizione netta e assai condivisibile: la parabola di Darby Hart ci incoraggia a non demonizzare questi strumenti, ma ad utilizzarli con distacco e lucidità, senza pretendere di trovare in loro dei sostituiti degni alla compassione e al raziocinio umani.
Il racconto evita di fornire risposte al problema, ma suggerisce tra le righe l’unica soluzione possibile: riscoprire l’empatia e tornare a godere del contatto con gli altri, pur conservando il cinismo necessario per accettare che il male nel mondo esiste e non è frutto di alcun algoritmo, ma soltanto delle debolezze e degli irreparabili bug dell’animo umano.