“Girls Just Want to Have Fun”, soprattutto in un ambito come quello sportivo dove devono lottare il doppio (dei colleghi uomini) per affermarsi, ritagliandosi un proprio spazio vitale nel quale brillare come diamanti: mai metafora fu più azzeccata, visto che A League of Their Own (distribuita su Prime Video, a partire dal 12 agosto, con il titolo Ragazze vincenti – La Serie) è ambientata nel mondo del baseball professionista.
Adattamento seriale dell’omonimo film del 1992 diretto da Penny Marshall e con protagonisti Geena Davis, Tom Hanks e Madonna, questa volta i creatori Will Graham e Abbi Jacobson (anche protagonista, nei panni della caparbia Carson Shaw) hanno optato per un universo narrativo più ampio e variegato, sfaccettato come le personalità delle varie protagoniste. La serie rievoca lo spirito gioioso dell’amato classico degli anni ’90 puntando lo sguardo sulla storia di un’intera generazione di donne che sognano di giocare a baseball a livello professionistico; sullo sfondo di questa storia vera, A League of Their Own cercherà anche di approfondire tematiche legate alla questione razziale e alla sessualità seguendo le storie di un nuovo gruppo di ragazze nel loro percorso sul campo, durante il campionato e ovviamente nelle loro vite private.
La più grande differenza che emerge, tra la versione cinematografica e quella seriale, è proprio la possibilità – colta al volo dagli showrunner – di dilatare lo spazio-tempo della narrazione originale (ispirata ad una storia vera), inserendo ulteriori personaggi e tessendo una miriade di linee narrative diverse che si intersecano tra loro, fino ad incontrarsi e a sfiorarsi. Se nel film l’attenzione era tutta incentrata sulla trama, sulla vicenda vera e propria, “ingabbiando” i personaggi in una struttura classica in tre atti (degna del cinema tradizionale), nella serie A League of Their Own l’attenzione è tutta focalizzata sulle sue protagoniste, che diventano i motori immobili delle peripezie che gravitano intorno al grande perno della narrazione: mostrare il lento processo di emancipazione delle donne sullo sfondo degli Stati Uniti, durante la Seconda Guerra Mondiale.
Le donne mostrate nella serie sono forti e in cerca di un’autonomia che fanno fatica a ritagliarsi, in un mondo scandito da regole, obblighi (sociali e morali) quanto da un male gaze imperante che sembra aleggiare sul bene più prezioso che hanno: la loro libertà. La serie segue due linee narrative principali, che vedono protagoniste le giocatrici delle Rockford Peaches e Max (Chanté Adams), la giovane promessa del baseball la cui passione viene castrata dall’assurdità del razzismo imperante. La sensazione che si ha, vedendo la serie dal primo episodio, è che la presentazione delle varie linee di storytelling sia vittima di una delle più grandi contraddizioni della contemporaneità cinematografica: da parte degli sceneggiatori, dei registi e soprattutto delle piattaforme streaming più famose, c’è la necessità di aggiornare in modo coatto (e fin troppo meccanico) ogni storia e situazione anche se ambientata in un’altra epoca.
Il risultato è spesso anacronistico e forzato, ricco di contraddizioni che oscillano tra la modernità estrema dei dialoghi, passando per i contenuti trattati, fino alla scelta della colonna sonora (divisa tra pezzi “vintage” degli anni ’40 e canzoni figlie degli anni ’60). Ossimori che guardano troppo al nostro presente, presentando squarci sul futuro, ma perdendo di vista il focus sulla contestualizzazione storiografica (come visto, di recente, anche nel caso del film Netflix Persuasione). Questo aspetto distrae l’attenzione degli spettatori dai veri messaggi che la serie ispirata a Ragazze vincenti vuole veicolare; e un altro davvero importante, oltre a quelli già elencati, riguarda invece la rappresentazione dell’omosessualità nel mondo sportivo, un tema considerato ancora tabù nel mondo odierno, immaginiamo nell’America degli anni ’40.
A League of Their Own è quindi un prodotto mainstream leggero ma incalzante, capace di riflettere – attraverso le sue storie, declinate principalmente al femminile – sulle diverse sfaccettature degli USA dell’epoca, che si trasformano nell’inconfondibile specchio delle contraddizioni moderne che ancora dilaniano la nostra società. Una premessa interessante che forse finisce per diluirsi fin troppo nell’arco di otto episodi da un’ora ciascuno (e dal finale aperto, pensando già ad una seconda stagione), pronti ad imitare la realtà raccontandola attraverso l’occhio – edulcorato – della macchina da presa.