Il titolo italiano, per l’inglese fa lo stesso, mette subito in chiaro le cose. Wonder – White Bird, regia di Marc Forster, nelle sale italiane il 4 gennaio 2024 per una distribuzione Notorious Pictures, è in misura collaterale ma importante il proseguimento di un discorso cominciato altrove. Sorta di spin-off di Wonder, il popolare dramma/coming-of age del 2017 con Julia Roberts, Owen Wilson e Jacob Tremblay, favola contemporanea su accettazione, diversità e gentilezza che qui si colora di un tono ulteriore. Perché il film del 2023, ugualmente basato sulla graphic novel di R. J. Palacio, gioca a mischiare le carte.
Non solo racconto di formazione, immaginario YA (Young Adult) e romanticismo, ma anche edificante apologo morale e ricostruzione storica. È un terreno scivoloso, tanto, quello che accosta la purezza di un sentimento che nasce e un’immane tragedia. Ma di questo si tratta, con Wonder – White Bird: un amore giovane e fragile sullo sfondo dell’Olocausto, da qualche parte nella Francia apparentemente libera di Vichy, in realtà collaborazionista e antisemita. I rischi sempre in agguato dell’operazione: retorica, sentimentalismo, mistificazione. Forster è un regista coraggioso.
Passato e presente, o meglio… presente e presente
Il tempo di Wonder – White Bird è doppio, ma sarebbe sbagliato parlare di passato e presente, anche se tecnicamente di questo si tratta. Più corretto dire presente e presente, sono vivi entrambi, il primo nell’America di oggi, il secondo a metà degli anni ’40 in Francia. A dare respiro e coerenza a mondi in apparenza così distanti, ci pensa (narrativamente parlando) Sara (Helen Mirren), una rinomata artista francese a New York per una retrospettiva in suo onore. Dal punto di vista etico, sentimentale, morale, il filo conduttore è un discorso su umanità, solidarietà e potere dell’immaginazione.
Sara è la nonna di Julian Albans (Bryce Gheisar), l’anello di congiunzione con Wonder. Era un personaggio di quel film e ora lo troviamo in un nuovo liceo, perché dal precedente istituto è stato espulso. Julian è in crisi, fatica a prendere coscienza dei suoi errori e a fare nuove amicizie. La donna capisce che c’è qualcosa che non va e per aiutarlo a crescere rompe il più doloroso dei tabù. Decide di raccontargli il suo passato di giovane adolescente ebrea francese in un paese che le volta le spalle nel modo più vergognoso e crudele. La giovane Sara (Ariella Glaser) vive con i genitori nella Francia di Vichy, la porzione meridionale del territorio ufficialmente non occupata dai nazisti e quindi, pensano i genitori, al riparo dalle persecuzioni antisemite. Si sbagliano, soffia un vento di tempesta anche da quelle parti e lo scopriranno a loro spese. Un rastrellamento a sorpresa, proprio pochi giorni prima della fuga all’estero, separa Sara dai suoi genitori. Si salverà, per il rotto della cuffia, nascosta nel fienile di un compagno di scuola.
Si chiama Julien (Orlando Schwerdt) – guarda un po’ che coincidenza -, in classe lo prendono in giro perché cammina con le stampelle, per via della poliomielite. Sara fino a quel momento non si era neanche accorta di lui. Era uno scarto, uno sfigato, un emarginato. È la sua forza. Non partecipando al clima generale di conformismo e disprezzo razzista, Julien ha conservato qualcosa di prezioso, in tempo di guerra e non solo. L’umanità. Non è poco. Julien ogni mattina a scuola memorizza la lezione che di sera trasmetterà alla protagonista, per non lasciarla indietro. Lei non smette di disegnare, di coltivare la sua passione e il suo estro anche oltre i limiti della sosta forzata nel fienile. Non vanno dimenticati i genitori del ragazzo, soprattutto la mamma, Vivienne (Gillian Anderson), che si prende cura di Sara come fosse figlia sua.
Un accostamento audace
In poche righe è raccolta l’essenza tematica e sentimentale di Wonder – White Bird: la forza dell’immaginazione (i ragazzi e i loro viaggi immaginari), l’arte come veicolo di autorealizzazione e ponte tra le persone, l’umanità prima delle bandiere e i nazionalismi, l’amore. L’amore tra Sara e Julien è tutto. Marc Forster sorvola sulle fatiche e le frustrazioni dell’immobilità della protagonista per concentrarsi sui piccoli turbamenti, la complicità e gli imbarazzi di un sentimento che nasce. È un’educazione alla vita e all’amore, il suo film, sullo sfondo di un dolore indicibile.
Che si intuisce, più che vederlo (anche se non mancano parentesi esplicite) e questo serve, al regista tedesco, a bilanciare leggerezza del sentimento e trauma storico. La lezione morale e di vita che Sara trasmette al nipote, il memoriale di una che ce l’ha fatta, è una materia difficile da affrontare al cinema. Si corre il rischio che il sentimento deragli in melassa e che la ricostruzione di una pagina nerissima del nostro passato comune si imponga con attitudine retorica e ruffiana. Sara non esce mai dal fienile, il film non esce mai dal fienile; questa particolare simmetria di destini permette al romanticismo di venir fuori senza scontrarsi con la bruttissima realtà del mondo di fuori. Le trappole di un certo tipo di storia sono tante e difficili da schivare e Forster non riesce sempre a cavarsela.
Wonder – White Bird poggia per lo più sui corpi e i giovani volti dei suoi protagonisti, che hanno l’incoscienza e la freschezza giusta per tenere insieme l’incredibile accostamento (Olocausto, educazione sentimentale e non solo). E se non è il caso di parlare di messaggio, che il cinema non ha tempo da perdere con queste parole un po’ ipocrite, è chiaro che una forte carica morale all’opera c’è, qui, un’architettura inoppugnabile. Hanno ragione, il film e il suo regista, a parlarci di responsabilità, della forza salvifica dell’immaginazione, delle catastrofi generate dall’odio e dei pregi della solidarietà. Forse il compito è troppo grande e complesso. La regia di Marc Forster non è abbastanza solida da impedire al film di scansare eccessi retorici e convenzioni stucchevoli. È un limite del cinema del dolore e della memoria, la difficoltà a trovare la giusta asciuttezza, su cui non si riflette mai abbastanza.