A dieci anni dalla sua ultima fatica (Stories We Tell del 2012), la regista e sceneggiatrice Sarah Polley – che ha esordito come attrice prima di passare dietro la macchina da presa – è tornata al cinema con l’acclamato Women Talking, un dramma claustrofobico, feroce e profondo, che dopo essere stato distribuito nelle sale statunitensi lo scorso dicembre e aver conquistato bene due nomination ai prossimi Oscar (miglior film e migliore sceneggiatura non originale), arriva finalmente anche in Italia, dall’8 marzo grazie a Eagle Pictures.
Nel corso della sua breve carriera da regista (all’attivo ha soltanto quattro pellicole, di cui ha sempre curato anche la sceneggiatura), Sarah Polley è riuscita ad imporsi senza fare troppo rumore come un’astuta osservatrice della realtà, dotata di un talento che forse pochi cineasti possiedono: trasformare premesse semplici alla base di storie piccole in autentici catalizzatori di emozioni e situazioni intime ma allo stesso tempo complesse. E Women Talking non è altro che l’ennesimo bellissimo sforzo votato a rinvigorire e salvaguardare questa spiccata sensibilità.
Adattamento del romanzo “Donne che parlano” di Miriam Toews del 2018 – a sua volta liberamente tratto da fatti realmente accaduti nella colonia Manitoba, in Bolivia, nel 2011 -, Women Talking racconta la storia di un gruppo di donne che si ritrovano a discutere di un segreto a dir poco scioccante: per anni, gli uomini della loro rigida colonia religiosa hanno usato anestetici per drogarle e violentarle (causando spesso gravidanze indesiderate). Ora che l’atroce verità è venuta a galla, le donne – presa coscienza della loro drammatica e infima condizione – si ritroveranno a dover scegliere: restare, combattere o andare via.
La Polley dirige un formidabile ensemble di attrici – Rooney Mara, Claire Foy, Jessie Buckley e Frances McDormand, ma anche le meno conosciute Judith Ivey e Sheila McCarthy – e per la maggior parte del film confina il loro talento all’interno di un unico ambiente (un enorme fienile con travi in legno), permettendo così al motore immobile della storia – il dibattito che vede coinvolte le donne e la loro resilienza – di assumere contorni inesorabilmente tesi e intensi, in cui dubbi sulla fede si mescolano fino a confondersi con rabbia, frustrazione, senso di mortificazione ma anche desiderio di rivalsa.
Il potere causativo della parola
La sceneggiatura – la seconda grazie alla quale la Polley riesce a sedurre l’Academy (una prima candidatura era già arrivata per merito del suo esordio, Away from Her – Lontano da lei) – rincorre una progressione affascinante e sempre più incalzante: i dialoghi si caricano di intenti ben precisi e le parole di un potere causativo imprescindibile; non servono soltano a rievocare tutto il dolore, il risentimento, il rancore e l’odio rispetto ad una condizione umanamente insostenibile, ma anche a rivendicare un ruolo, una posizione, un diritto, al pari di un bisogno, un desiderio, una possibilità.
Le singole esperienze di ognuna di queste donne si combinano con l’esperienza collettiva, quella dell’interno gruppo, formando una pletora inquietante di traumi indicibili, di cui Sarah Polley decide scientemente di mostrare soltanto le conseguenze, a dimostrazione che il peso di quel trauma può essere avvertito senza bisogno di mostrare la violenza nella sua forma più stridente. In Women Talking, è come se l’orrore si fosse impadronito dei corpi di queste donne prima, nelle pagine, e dei volti delle attrici che le interpretano dopo, sullo schermo, forgiando una pluralità di atteggiamenti contrastanti – dalla placidità di Ona (Rooney Mara) si passa alla rabbia sfrenata di Salome (Claire Foy) o alla turbolenza di Mariche (Jessie Buckley) – ma accumunati dagli stessi timori e dalle medesime necessità.
Ed è proprio attraverso il confronto, quello diretto e spietato, che verrà concesso a pensieri e aspirazioni di assumere concretezza e manifestarsi nella loro indipendenza. Perché sono proprio i pensieri e le aspirazioni a servire da strumento per deviare la conversazione verso nuovi percorsi, intricati ma liberatori, che la Polley traccia senza mai cedere il passo al travolgimento. Laddove, probabilmente, si lascia qualcosa di vagamente intentato, si racconta senza mai esagerare o sviscerare, parallelamente si orchestra con grande raffinatezza (anche visiva) una fucina di azioni e reazioni attraverso cui le donne arrivano finalmente a parlare, esternando e confrontandosi, riuscendo ad infrangere un muro del silenzio rimasto inveterato troppo a lungo.